Leggere il viaggio cinematografico di Pablo Larraín, uno degli esponenti più interessanti de El novísimo cine chileno (Urrutia, Fernández 2020), attraverso la lente del biopic vuol dire in primo luogo pensare a questo termine non tanto e non solo nei termini di un genere di grande attualità, ma anche e soprattutto riflettere sulle implicazioni estetiche e politiche di un concetto che attraversa il presente ed è capace di condensarne ansie e aspettative.

Se il biografico è uno strumento utile per leggere gli effetti della sovraesposizione del sé all’interno della cultura visuale contemporanea, la filmografia di Larraín indaga, a partire dal racconto straniante di alcune vite erranti e instabili, i meccanismi che nel secolo scorso hanno permesso la costruzione di un’immagine della dittatura, della democrazia, della morale cattolica, della creatività poetica, della comunicazione mediatica (Coviello, Zucconi 2017). Costruita a partire da vite minuscole (Michon 2016), spesso fittizie, e storie marginali, la “trilogia della dittatura” è la prima parte della biografia politica di un paese dilaniato dalla paura e dalla violenza generate dalla dittatura di Pinochet. La seconda parte della biografia della nazione cilena, anche se cronologicamente anteriore alla dittatura, Larraín la realizza con Neruda (2016), il film sul poeta e intellettuale costretto all’esilio per le sue idee politiche. Ma la biografia del Cile post-Allende non può esistere senza un confronto con gli Usa. Per questo, anche grazie a Jackie (2017), Larraín può confrontarsi con il paese che aveva costituito l’ossessione indiretta della trilogia e che aveva contribuito a trasformare il Cile in un laboratorio di una nuova estetica sociale, fondata sulle teorie neoliberiste.

Dentro e oltre la dittatura

Per Roberto Bolaño i sudamericani che avevano una ventina d’anni quando morì Salvador Allende non possono sfuggire alla violenza. Piuttosto che indagare le cause storiche dell’11 settembre 1973, il giorno del colpo di stato compiuto da Pinochet contro il governo socialista guidato da Allende, la “trilogia della dittatura” composta da Toni Manero (2008) Post Mortem (2010) e No – I giorni dell’arcobaleno (2012) scava a fondo le ragioni di questa permeabilità sociale alla violenza.

Larraín va alla ricerca delle modalità di funzionamento della macchina dittatoriale e del suo rapporto con il sistema mediatico. Li analizza a partire da singoli soggetti – più o meno patologici – e dalla loro incapacità di tutelare uno spazio, individuale e collettivo, di resistenza cognitiva, passionale, politica. Non sono dei “dissidenti politici” e nemmeno dei sostenitori del regime. Si tratta di trasfigurazioni per eccesso, risultato della pressione dittatoriale sul corpo sociale. Personaggi instabili, bloccati in uno spazio pubblico annichilito, incapaci di incidere in modo pragmatico sulla realtà. Le loro soggettività sono l’espressione, drammaticamente satura, degli effetti delle strategie disciplinari e di controllo esercitate dal potere dittatoriale.

Mentre Toni Manero è la biografia immaginaria di Raúl Peralta, un uomo ossessionato dal personaggio di John Travolta ne La febbre del sabato sera (Badham, 1977), i protagonisti dei film successivi, interpretatati da Alfredo Castro, già presente in Toni Manero, e Gael García Bernal, sono la rielaborazione finzionale e fittizia di alcuni eventi ed esistenti legati alle cronache del periodo dittatoriale. In Post Mortem, Mario Cornejo è il funzionario pubblico incaricato dalle milizie di trascrivere i risultati dell’autopsia effettuata sul corpo di Allende (solo in anni recenti gli storici hanno screditato la pista del suicidio). In No – I giorni dell’arcobaleno, René Saavedra, liberamente ispirato alla figura del pubblicitario cileno Eugenio García, diventa “complice” del cambiamento democratico cileno. Saranno i suoi spot, ottimisti e semplificatori, quasi del tutto privi delle immagini delle torture e dei desaparecidos, a decretare la vittoria del No al Plebiscito del 1988 e a segnare la fine della dittatura.

Raúl, Mario e René sono dei testimoni imperfetti (Lasagna 2021): cercano di sopravvivere nonostante l’orrore quotidiano e al contempo contribuisco ad alimentarlo. D’altra parte, l’esercizio della violenza e il terrore politico basano la loro efficacia proprio sulla creazione di una paradossale compromissione tra i perpetratori e le vittime, dove quest’ultime, sopravvivendo, rischiano di rendersi conniventi, fino al punto di attuare a loro volta soprusi e violenze.

Il club (2015) è una sorta di prolungamento della trilogia, in quanto affronta il tema delle violenze commesse dai sacerdoti e la connivenza tra la Chiesa cilena e la classe dirigente dittatoriale. Nel corso di un’intervista, Larraín ha dichiarato di essersi ispirato alla vicenda del vescovo Francisco José Cox accusato di pedofilia e per questo rifugiatosi in Europa. Al di là della cronaca, il film utilizza e rielabora il dispositivo confessionale, inteso come strumento centrale per il racconto del sé e la conformazione a una condotta (Tagliani 2019). Utili alla progressione della trama, i diversi momenti confessionali che costellano Il club sono altresì capaci di definire le sfaccettature di un comportamento che garantisce ai soggetti di convivere con le proprie colpe e permette di giustificare a se stessi e agli altri le proprie malefatte.

Questo non è un biopic

Già a partire dai titoli e dalla scelta dei soggetti biografati – un’icona culturale e politica ed un mito d’oggi – Neruda e Jackie sono i film di Larraín più esplicitamente biografici. Con Neruda, Larraín affronta di nuovo i traumi del Cile e i prodromi della dittatura ricorrendo per la prima volta a un protagonista, ingombrante, della storia del Novecento. Sotto molti aspetti, il poeta è il negativo dei personaggi dei film precedenti. Si tratta infatti di un eroe acclamato dal popolo con poche ombre nella sua storia, sempre critico nei confronti del potere politico e per questo ricercato dalla polizia. Eppure, la presa in carico di un punto di vista così autorevole non si traduce in un vero e proprio biopic. L’elemento di maggiore destabilizzazione della forma biografica riguarda la frammentazione dell’identità narrativa di Neruda. Se la biografia è il racconto di un’esistenza attraverso e a partire dal suo protagonista, in Neruda è l’antagonista, il capo della polizia Óscar Peluchonneau (Gael García Bernal). A complicare le cose, si aggiunge la presenza di una voce off che non assume i tratti di un’istanza onnisciente, detentrice di un sapere maggiore dei personaggi, e che non si identifica con il protagonista Neruda (Luis Gnecco). Questa rivela piuttosto i pensieri e le ambizioni del commissario.

In Neruda, Larraín trasforma l’espediente narrativo della fuga del poeta dal Cile in uno strumento per depistare tanto gli spettatori quanto i personaggi, fino a far dubitare che le fila della narrazione siano effettivamente nelle mani dell’investigatore Peluchonneau. Ma allora, forse, tutto il film è un poema di Neruda mai scritto. Se così fosse, il Neruda del film è un narratore onnisciente e onnipotente, capace di scrivere il destino dei suoi personaggi e ricostruire gli eventi trascorsi da un’altra prospettiva. Ecco allora che il personaggio si fa autore, capace di raccontare il riscatto del suo popolo oppresso.

Con Jackie, Larraín si confronta con qualcosa di radicalmente nuovo: lavora in una lingua diversa dallo spagnolo e realizza il film in Europa e pone al centro della sua opera un personaggio femminile, interpretato da una star del calibro di Natalie Portman. Eppure le direttrici teoriche del suo cinema, in particolare l’indagine sulla storia e la memoria e il confronto con le forme del biografico, restano salde.

In Jackie è all’opera una strategia di esposizione del volto, utile sia alla riemersione del trauma connesso alla morte del presidente Kennedy sia alla costruzione di un’immagine efficace e duratura del potere. Protagonista di Jackie è dunque il volto, il suo ritratto, assieme ai meccanismi di cattura e di esposizione sempre più pressanti che lo pongono al centro del panorama mediatico e artistico – si pensi agli abiti di Chanel e alle serigrafie realizzate da Warhol già nel 1964. Ed è al confine tra la sofferenza privata e l’esposizione pubblica del corpo, tra il prelievo archiviale dei documenti televisivi e il loro innesto finzionale, che si articolano la storia e la visibilità di Jackie.

Dopo l’immersione nel Cile contemporaneo con la parentesi fulminante di Ema (2020), Larraín si appresta a realizzare il biopic di un’altra protagonista del Novecento come Lady Diana, un’altra donna travolta dalle dinamiche del potere, un altro corpo che ha sofferto per gli eccessi dell’esibizione mediatica.

Riferimenti bibliografici
M. Coviello, F. Zucconi, Sensibilità e potere. Il cinema di Pablo Larraín, Pellegrini, Cosenza 2017.
R. Lasagna, Vivere e morire a Santiago. Introduzione al nuovo cinema cileno, Bietti, Milano 2021.
P. Michon, Vite minuscole, Adelphi, Milano 2016.
G. Tagliani, Biografie della nazione. Vita, storia, politica nel biopic italiano, Rubettino, Soveria Mannelli 2019.
C. Urrutia Neno, A. Fernández, Bordes de lo real en la ficción: Cine chileno contemporáneo, Metales Pesados, Santiago 2020.

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