Come una vecchia signora spaventata, Hollywood ha improvvisamente paura del traffico. Ha bisogno di essere guidata da mani giovani, dando così prova di una fiducia abbastanza commovente, leggermente ridicola, ma ricca di speranze nel futuro
del cinema americano.
Orson Welles, 3 novembre 1970

Da It’s All True a The Dreamers, passando per Don Quixote, la carriera di Orson Welles è costellata di avventure interrotte. Fra queste vi è The Other Side of the Wind (d’ora in poi The Other Side), oggetto di un intenso e vivace dibattitto sugli incompiuti wellesiani, recentemente rilanciato in seguito all’operazione di Netflix, che ha acquistato i diritti di distribuzione del film e finanziato il montaggio. Il saggio di Massimiliano Studer, Orson Welles e la New Hollywood. Il caso di “The Other Side of the Wind” (Mimesis, 2021), da un lato aggiunge molti importanti tasselli allo studio della complessa e tortuosa vicenda creativa-produttiva, ma anche biografica, dopo le novità emerse negli ultimi anni dalle pubblicazioni di Joseph McBride (2006) e di Josh Karp (2015); dall’altro si occupa di esaminare accuratamente, con annesse valutazioni, l’edizione rilasciata nel 2018 dal colosso statunitense dell’intrattenimento streaming, ponendo rilevanti questioni di filologia filmica.

Lo studioso dichiara di essersi attenuto precipuamente ai parametri metodologici di ricerca storica indicati da Apologia della storia o Mestiere di storico (1949) di Marc Bloch e da Spie. Radici di un paradigma indiziario (1979) di Carlo Ginzburg, ma oltre a queste influenze sembra ben presente anche la nozione di “prova” proposta altrove sempre da Ginzburg. Secondo quest’ultimo, il concetto di prova nel discorso storico è complementare al paradigma indiziario e risponde all’interazione fra prove logiche, prove materiali e rifiuto di concedere validità probante a una testimonianza isolata*. Al tempo stesso, laddove l’interrelazione tra queste condizioni viene a mancare, Studer schiera giustamente ipotesi, rigettando ogni tentazione di forzatura ermeneutica. E a proposito di “forzature”, si pensi, inoltre, alle parole di Jonathan Rosenbaum, il quale tempo fa suggeriva che l’intento di “cristallizzare” il «flusso continuo di metamorfosi» e le costellazioni di significati dell’universo wellesiano è una pratica legittima a patto di «mantenere certe conclusioni ipotetiche e certe opzioni aperte» (2007a, p. 80), cosa che peraltro vale per la ricerca tout court.

È importante sottolineare questi aspetti non solo per dare conto della lucidità metodologica del lavoro svolto da Studer, ma anche perché il grande e articolatissimo tema dell’incompiutezza nella produzione artistica di Welles è stato molto spesso oggetto di riduzionismi – si pensi alle distorsioni prospettiche arrecate dall’infausta etichetta della «paura di concludere» (Higham 1970), fortunatamente via via confutata da più parti, nonché valutata come un “pericolo” per una ricerca pertinente (McBride 2006) – o relativizzato, quando non sottostimato a convenienza, in quelle letture animate dalla smania del “definitivo” – effetto della cosiddetta «sindrome di Rosebud» (Rosenbaum 2007b, 1) che s’insinua in molti ricercatori – termine più che mai inappropriato nel caso di Welles.

Per ricongiungere alcuni ponti interrotti e illuminare meglio una serie di zone in ombra della lunga e tribolata lavorazione di The Other Side, Studer si affida agli archivi: i fondi Welles del Museo Nazionale del Cinema di Torino –  disponibile dal 1998 – e dell’Università del Michigan, insieme a quello di “Les Films de L’Astrophore” (la casa di produzione franco-iraniana, guidata da Mehdi Bousheri, intervenuta nel finanziamento del film) conservato alla Cinémathèque française. L’interrogazione di un’eterogenea mole di documenti (lettere, telegrammi, trascrizioni di telefonate, contratti, promemoria, inventari di materiali, versioni di sceneggiature, preventivi e fatture) fornisce diversi elementi e indizi preziosi anche per approfondire quella combinazione di carattere (quello di Welles, naturalmente) e circostanze che sta dietro agli incompiuti del regista, così come riesce a intercettare ulteriori tratti dell’immaginario, del dinamismo creativo, del metodo di lavoro e delle influenze culturali del regista.

I primi due capitoli si concentrano sulla ricostruzione storica rispettivamente dello “scenario primigenio” in cui affonda le radici The Other Side e sulle sue vicissitudini produttive, esplorando le diverse fasi di trasformazione del progetto. L’incontro con Hemingway, lo choc per le circostanze della sua morte, il forte legame di Welles con la Spagna sono ciò da cui scaturisce l’ispirazione per The Sacred Monsters/The Sacred Beasts, una storia che unisce il mondo del cinema e quello delle corride, con un regista leggendario – modellato sulla personalità dello scrittore statunitense, machismo incluso – che segue le imprese di un giovane e avvenente torero, dal quale è sensibilmente attratto. Lo stesso Welles – ci dice McBride (2005, 155) – aveva definito The Other Side come una sorta di «permutazione» dell’idea di The Sacred Monsters, di cui si ha traccia a partire dal 1963. Oltre a indicare gli elementi di questo script “sopravvissuti” in The Other Side, Studer approfondisce alcuni aspetti del rapporto tra Welles ed Hemingway, ipotizzando una cornice diversa da quella finora contemplata per il loro incontro. Di seguito sono sondate anche le singolari affinità fra The Sacred Monsters e il coevo Il momento della verità (1965) di Francesco Rosi, un film incentrato anch’esso sull’ambiente delle corride e animato da suggestioni hemingwayane – più legate, per la verità, a Morte nel pomeriggio (1932) che alla personalità dello scrittore statunitense – il cui insuccesso spinge Welles ad abbandonare il progetto.

Successivamente, Studer esplora il contatto tra Welles e il contesto della New Hollywood. Tra le molte componenti e tra i fattori caratterizzanti questa stagione di rinnovamento, Studer si sofferma maggiormente sui mutamenti avvenuti in ambito produttivo e sulle tappe che conducono all’abbandono dell’ormai anacronistico Codice Hays nel 1968. Con l’ampliamento dei margini per la sperimentazione estetica e con la maggiore libertà concessa ai registi dalle produzioni, il clima sembra piuttosto favorevole per Welles. Eppure il suo tentativo di realizzare un film col sostegno del produttore di Easy Rider (Hopper 1969), Bert Schneider, sfuma. Al contempo Welles, osserva Studer, nonostante un iniziale atteggiamento fiducioso, riconosce già i rischi di un assorbimento degli innovativi cineasti della N.H. da parte del “sistema”.

Se in una prima fase The Other Side, cominciato nel 1970, si presenta come una produzione retta sulle sole forze economiche di Welles, in un secondo momento diviene necessario il supporto di finanziatori esterni. Da questo snodo, Studer intraprende un lavoro di ricomposizione assai dettagliata del ruolo che nella produzione hanno avuto prima lo spagnolo Andrés Vicente Gómez, rivelatosi inaffidabile e poi estromesso dal progetto, e dopo l’iraniano Mehdi Bousheri, i cui rapporti con Welles finiscono per logorarsi al punto da sfociare in un intricato scontro legale sui negativi del film – risulta, peraltro, dai documenti, che il regista avesse sottratto i positivi, per timore che il film gli venisse strappato di mano – conclusosi solo nei primi anni ottanta. A Bousheri, personalità poco approfondita dagli esegeti del regista, è riservata molta attenzione e, precisate le incompatibilità fra l’indole wellesiana e le condizioni poste dal finanziatore, si può dire che la sua figura risulti in fondo riabilitata da questo studio, alla luce delle informazioni emerse dagli archivi.

Il terzo e ultimo capitolo è incentrato su alcune questioni di filologia filmica riguardanti l’edizione Netflix di The Other Side, montata da Bob Murawski con la consulenza di Peter Bogdanovich. Essendo ancora impossibile accedere alle novantasei ore del girato, la disamina delle scelte operate nella versione del 2018 assume come punti di riferimento il working print di 42 minuti assemblato da Welles nel 1975, nonché gli appunti del regista, le diverse stesure della sceneggiatura e le testimonianze di quei collaboratori che hanno partecipato al montaggio di una o più scene. La conclusione a cui giunge Studer è che il lavoro di Murawski sia scarsamente aderente alle traiettorie di senso e di stile che lasciano trasparire le succitate fonti, utili per avvicinare, almeno in parte, le intenzioni creative di Welles. Anche laddove sarebbe bastato semplicemente attenersi alla porzione di film già finalizzata (il working print) vi sono state delle alterazioni. Di mezzo sembrerebbero esserci anche le approssimazioni di un software che è stato preferito a un team di visionatori/selezionatori per le operazioni di prelievo dal materiale girato e per la sua comparazione con il working print.

Si tratta di analisi e questioni che, insieme a quanto esposto da Studer nella parte storica del saggio, contribuiranno sensibilmente al dibattito su The Other Side, nella consapevolezza che, al di là di questo caso specifico, il lascito wellesiano sia un banco di prova formidabile per testare le metodologie di filologia del cinema e delle teorie dell’archivio.

Riferimenti bibliografici
J. Karp, Orson Welles’s Last Movie. The Making of The Other Side of the Wind, St Martin’s Press, New York 2015.
J. McBride, What Ever Happened to Orson Welles? A Portrait of an Independent Career, University Press of Kentucky, Lexington 2006.
J. Naremore, Orson Welles. Ovvero la magia del cinema, Marsilio, Venezia 1993.
J. Rosenbaum, Note sulla ricerca wellesiana: alcune osservazioni metodologiche, in My Name is Orson Welles. Media, forme, linguaggi, a cura di G. Placereani, L. Giuliani, Il Castoro, Milano 2007.
J. Rosenbaum, Discovering Orson Welles, University of California Press, Berkeley 2007.

*Si veda C. Ginzburg, Il giudice e lo storico. Considerazioni in margine al processo Sofri, Einaudi, Torino 1992 e il primo capitolo di Id., Rapporti di forza. Storia, retorica, prova, Feltrinelli, Milano 2000, pp. 51-67.

Massimiliano Studer, Orson Welles e la New Hollywood. Il caso di “The Other Side of the Wind”, Mimesis, Milano-Udine 2021.

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