Oggi si producono più serie televisive di quante sia possibile guardarne. Viviamo nell’epoca della cosiddetta “peak tv”, con 487 serie tv prodotte nel 2017 soltanto negli Stati Uniti, un aumento del 69% rispetto al 2012 e del 168% rispetto al 2002. Ma da dove provengono tutte queste serie tv? Come si accende la scintilla che le produce e che divampa nel fuoco di un racconto in grado di durare per anni e anni? L’origine di una serie tv è un’idea fondativa che contiene in sé tutti i possibili sviluppi narrativi. È l’insieme di regole che inaugura la mitopoiesi, un nucleo di virtualità drammaturgiche, il principio generativo di un mondo di storie che eccede sempre sé stesso: la scaturigine di una serie è il suo big bang ma l’universo che produce resta costantemente in espansione.
Nel concept di Lost – un aereo finisce su un’isola misteriosa – ci sono già tutti i suoi possibili sviluppi ma ci sono anche tutti quelli che non hanno avuto luogo; perché quel postulato fondativo istituisce un dispositivo che potrebbe non smettere mai di lavorare, garantendo la riproducibilità perpetua della serie, un po’ come i computer che “minano” bitcoin all’infinito. La forza primigenia di una simile idea, sancisce, di solito, la longevità di una serie. Per far espandere l’universo narrativo all’infinito, infatti, ci vuole una spinta propulsiva che ne sia all’altezza. L’origine di una serie è dunque l’algoritmo in grado di mettere in moto una macchina generatrice di storie infinite. Questa matrice è l’origine della serie ma è anche la sua originalità.
Tutte le serie televisive di maggior successo manifestano un tratto identitario fondante che le rende facili da vendere, da ricordare e da raccontare agli amici: una specificità che è anche ciò che fa la riproducibilità della serie. Il guizzo che genera il racconto è anche l’insieme delle caratteristiche che fanno di quel progetto lo show che è e non un altro. L’origine/originalità di una serie si basa sulle coordinate fondamentali del discorso (chi, dove, quando, cosa, come): su uno o più personaggi e sulla loro rete di conflitti e interazioni (Breaking Bad); su un contesto inusitato e intrinsecamente portatore di racconto (Westworld); su un’idea di controllo scompaginante (The Leftovers); sull’innovazione del linguaggio (Thirteen, Reasons Why).
Il tessuto narrativo dell’opera si complica sempre di più nel corso dello sviluppo, rendendo complesso individuare in cosa consista il nucleo fondante della serie: cos’è che ha generato Gomorra, il luogo o i personaggi? Cosa fa di Stranger Things ciò che è, i suoi giovani protagonisti o il mondo dell’upside down? Almeno nei casi più sofisticati, la matrice fondativa di una serie è una formula che tiene in sé spinte creative molteplici e spesso eterogenee e tuttavia, nel contesto competitivo di oggi, in cui ogni opera deve lottare contro le altre per assicurarsi la sopravvivenza, tra tutte le possibili soluzioni utili a originare una serie tv, la ricerca di una formula che imposti il come del racconto sembra essere diventata prioritaria nel lavoro degli autori. Un’innovazione grammaticale che riformuli il linguaggio e al contempo sancisca il funzionamento del dispositivo seriale. Sembrerebbe un mero esercizio di stile, di pura forma, ma non è così. Perché il modo in cui si racconta può essere ciò che fa la serialità di una serie.
Prendiamo un caso eclatante e forse ancora insuperato: 24. Nella serie prodotta da Fox, tempo diegetico ed extradiegetico si corrispondono e ogni episodio della durata di 60 minuti ci mostra un’ora nella giornata dell’agente speciale Jack Bauer. Una singola stagione è composta da 24 episodi e dunque copre l’arco di una giornata, in una virtuosa ma adrenalinica reinvenzione del genere action. Alle infinite giornate impegnative di Jack Bauer, corrispondono le infinite stagioni della serie.
In tempi più recenti è l’autore israeliano Hagai Levi a partorire due casi importanti di innovazione linguistica del dispositivo seriale: In Treatment e The Affair. Nel primo, ogni episodio racconta la seduta di terapia settimanale di un diverso paziente da un analista; nel secondo, è il gioco delle contraddizioni dei punti di vista a costruire lo specifico della serie. The Affair gioca con un tipo di meccanismo, quello del racconto a cornice, su cui la serialità televisiva ha sperimentato le più disparate variazioni: True Detective, attraverso lo sfasamento tra la narrazione che i nostri fanno nel presente e la realtà che viene mostrata in scena nei flashback; Big Little Lies, che si serve del piano dell’oggi per rigenerare i sospetti nella trama gialla che si svolge nel passato; la serie Netflix Thirteen, in cui ogni episodio rappresenta il lato di un’audiocassetta che un’adolescente suicida lascia in eredità ai propri amici – qui la voce della protagonista illumina il senso del presente, cioè il mistero della sua morte, a partire dal passato, o se si preferisce, dall’aldilà.
Oppure ancora la serie ABC This is Us, che mescola i piani temporali del racconto giocando con le illusioni inferenziali scatenate nello spettatore dal montaggio della storia o anche il thriller inglese The Missing, che è una storia che procede in parallelo su due binari temporali a distanza di 9 anni. Nella prima storyline assistiamo al rapimento di un bambino e alle indagini che ne seguono; nella seconda seguiamo il padre del bambino rapito che torna, 9 anni dopo, sul luogo del crimine, spinto da nuovi indizi. In The Missing il “cold case” e il caso oggetto dell’indagine del presente sono la stessa cosa, e il narratore va continuamente avanti e indietro nel tempo per giocare con la sorpresa data dai cambiamenti avvenuti nella vita dei protagonisti, che lo spettatore vede attraverso repentini stacchi ma che di fatto maturano nel corso dei 9 anni di ellissi temporale.
Tutti questi espedienti formali hanno in comune il fatto di fornire alla serie una sorta di automatica disposizione alla reiterabilità dei suoi moduli narrativi. E non per caso tutti i giochi narrativi citati mettono in campo il tempo. Essi trovano la loro applicazione nella giuntura impossibile tra la storia lineare raccontata e la struttura ciclica del formato che la sostiene: il dispositivo seriale riscrive la grammatica del racconto giocando sul rapporto tra il segmento e il cerchio, tra il finito della storia e l’infinito del suo formato. Mentre il narratore offre l’ordine di senso del tempo umano attraverso il racconto, il dispositivo seriale cerca disperatamente di attingere al tempo enorme della ripetizione, che è quello insulso della vita che scorre istante dopo istante. Il gioco narrativo della serie non fa che mostrarci l’instancabile sforzo di questa lotta, la stessa che combatté Odisseo per primo e per sempre, quando disegnò nel tempo vacuo della vita dei Feaci l’orizzonte di senso del racconto.