Sono note le affermazioni – spesso colme d’ironia – di molti cineasti circa la presunta utilità delle scuole di cinema. L’industria cinematografica in espansione ebbe ben presto bisogno di dotarsi di organi per la formazione di lavoratori che fossero in grado di svolgere i molti “mestieri” che la nuova arte aveva imposto, anche in Italia: il Centro Sperimentale di Cinematografia sorge davanti agli studi di Cinecittà. D’altra parte, il rapido imporsi negli anni cinquanta della teoria dell’autore avrebbe determinato una proliferazione di mitologie più o meno romantiche attorno ad una figura – quella del regista – che si definiva piuttosto contro il giogo dell’industria che non nel rispetto delle sue regole.
Fin dal titolo, L’ora di regia (Rubbettino-Edizioni di Bianco e Nero, 2016) pone l’accento sulla didattica di una materia problematica. Il volume raccoglie e rielabora una serie di conversazioni che hanno avuto luogo nell’estate del 2015 tra due registi di generazioni diverse, Gianni Amelio (1945) e Francesco Munzi (1969), in passato legati da un’insolita relazione: il secondo è stato per un breve periodo allievo del primo, proprio al Centro Sperimentale.
Prendiamo due dichiarazioni, collocate grosso modo all’inizio e alla fine del libro: “la regia si impara ma non si insegna” (p. 33), “la regia ha qualcosa che sfugge a un insegnamento organico così come a un apprendimento immediato” (p. 150). Essa non è riducibile alla trasmissione di un semplice insieme di precetti. Non che a queste regole sia negato ogni valore: anzi, come osserva Emiliano Morreale nel testo che introduce il volume, l’idea di cinema che accomuna Amelio e Munzi è probabilmente quella di un’“arte” nell’accezione originaria del termine, come mestiere nel senso più alto. E, tuttavia, il punto cruciale (su cui nella conversazione si torna in modo quasi ossessivo) sembra darsi proprio in ciò che nel cinema – e nella regia, “arte” fatta di regole che possono essere trasmesse e apprese – non è insegnabile. Giunti quasi al termine del loro confronto, i due interlocutori sono costretti ad ammettere di non essersi allontanati poi molto dal proprio assunto di partenza.
In verità, procedendo nella lettura, ci si accorge ben presto che l’autentica posta in gioco del libro non è in una definizione teorica o pratica della regia cinematografica, ma proprio in una idea di insegnamento. L’ex maestro e l’ex allievo discorrono a lungo di problemi pratici, si confrontano su soluzioni tecniche e di messa in scena, rievocano episodi, circostanze, traversie produttive; soprattutto raccontano gli anni trascorsi nelle aule del Centro, vissuti da posizioni speculari, tentando di trarne un bilancio. Ciascuno riflette su quella fase del proprio itinerario, comparandola all’esperienza dell’altro. E, quasi insensibilmente, i ruoli stessi di maestro e allievo tendono a confondersi: “Ho imparato più come docente al Centro Sperimentale, cercando di spiegare il senso di un carrello, che non da tutti i carrelli che avevo fatto prima io stesso”, dice Amelio (p. 61). Avvertendo le implicazioni e il peso del paradosso, i due giocano allora a scambiarsi le parti, consapevolmente (“Chi insegna e chi impara”, “Tu al posto mio” sono i titoli di due dei dodici capitoletti nei quali è scandita la conversazione).
Dopotutto, si tratta di un’esperienza che qualunque insegnante dotato di un minimo di coscienza del proprio lavoro ha fatto almeno una volta nella propria vita. Si impara qualcosa nel mentre lo si insegna, lo si apprende davvero solo insegnandolo. È un processo (per certi versi misterioso) di spersonalizzazione, che coinvolge docente e discente, il cui rapporto frontale e gerarchico tende a dissolversi per fare spazio a un circuito nel quale i ruoli stessi si rendono indiscernibili. Buona parte del fascino che il dialogo tra Munzi e Amelio esercita sul lettore deriva proprio dal suo essere sottilmente tramato dai segni di questo rapporto di indecidibilità.
Ma è anche un dato che ha a che vedere innanzi tutto col cinema di Amelio. In quest’opera, il tema fondamentale della formazione di un soggetto nel mondo si declina nei termini di un apprendistato e di un’educazione alla vita, e lo fa secondo un modello la cui ricorsività ci sembra sintomatica: due personaggi divisi da una distanza anagrafica più o meno cospicua (un fratello maggiore e un fratello minore, un padre e un figlio, un giovane adulto e un bambino) affrontano insieme un percorso, un cammino che rimetterà in discussione le coordinate esistenziali ed emotive di entrambi. Ma in che modo si innesca questo processo? Ne Il ladro di bambini (1992), ad esempio, è il carabiniere Antonio a dare delle lezioni di vita al piccolo Luciano, o è Luciano che può insegnare qualcosa ad Antonio? O non è piuttosto Antonio a imparare qualcosa proprio nel momento in cui lo insegna, in una sorta di miracolo che si compie, quello di una conoscenza simultanea alla sua trasmissione? Saremmo persino tentati di chiamare in causa una qualche forma di ascesi mistica, se le immagini di Amelio non ci riconsegnassero una materialità così dura e opaca da non ammettere alcuna trascendenza al di fuori di sé.
Il punto è proprio questo: non c’è un soggetto già formato che assumerebbe il ruolo di guida per una soggettività ancora fluttuante e priva di contorni definiti. Non c’è neppure un sapere acquisito che un soggetto qualsiasi somministrerebbe ad un altro. Contro ogni concezione razionalista della didattica, l’insegnamento è qualcosa che si attiva piuttosto in virtù di un non-sapere, di una ignoranza fondamentale, che, nella dinamica dell’incontro con l’altro (una dinamica che appartiene profondamente al cinema italiano, almeno a partire dall’esperienza neorealista), conduce a stabilire una relazione, un legame vitale. Allora forse, al di là delle apparenze, non è la questione dell’insegnamento ad essere in gioco, quanto il suo correlato necessario e abituale: l’apprendimento. Si tratterà di imparare qualcosa insieme, all’interno di un rapporto in cui i ruoli dati inizialmente (in ragione della differenza d’età, di posizione sociale, ecc.) si scambiano fino a indistinguersi. Al di sotto di un falso problema, quello dell’insegnare, affiora dunque un problema vero, quello dell’imparare.
Una simile concezione giunge a investire l’idea stessa di cinema che Amelio e Munzi paiono condividere, e consiste nel tentativo di recuperare una funzione pedagogica connessa all’immagine cinematografica. Non è forse questa una delle funzioni che il cinema ha svolto storicamente, quella di costituire, nella grande varietà delle sue narrazioni, nella “casistica” che esso non ha mai cessato di proporre, un grande universo pedagogico sulle forme di vita e di relazione, sui costumi, sui sentimenti, anzitutto sull’amore (quella stessa funzione che fra Sette e Ottocento era assolta dal romanzo, in particolare dal romanzo di formazione)? Se il cinema, come prima la letteratura, ha potuto insegnare qualcosa a qualcuno, ciò aveva direttamente a che fare con un’arte di vivere. Studiosi come Pierre Sorlin e Robert Sklar hanno provato a pensare, in maniera tutt’altro che provocatoria, la storia del cinema come una sorta di tutorial collettivo, come una presentazione di stili di vita che, certo, non avevano valore prescrittivo, ma erano capaci – questo sì – di suscitare una mimesi, un atteggiamento emulativo (più di recente, Carmelo Marabello ha ripreso quest’ipotesi a proposito della tradizione italiana, con specifico riferimento ad una messa in scena della vita quotidiana).
Se vi è una vocazione pedagogica nel cinema di Amelio come in quello di Munzi, essa ha poco o nulla a che vedere con le grandi “pedagogie” che hanno animato la modernità cinematografica (Godard, gli Straub), ma è piuttosto da ravvisare – come sottolinea ancora Morreale – nella coltivazione di questa linea desueta, minoritaria nel panorama contemporaneo (che paradossalmente eredita da un filone maior della nostra cultura, il melodramma): quella di un cinema genuinamente narrativo, classico, popolare, che voglia ancora farsi strumento di una penetrazione nella società, nelle sue pratiche come nel suo immaginario.
Viene fatto di ripensare a Rossellini e al suo Programma per un’educazione permanente (1972), per mezzo del quale il regista di Roma città aperta si proponeva di fornire un orientamento culturale a vaste masse di spettatori, affiancando così al progresso tecnico-scientifico dell’umanità un progresso morale che fosse capace di corrispondergli. Venendo a patti con le ragioni dello spettacolo e restando sempre fedele a un “dramma” capace di appassionare, senza tuttavia mai perdere un rigore documentaristico. Certo, gli intenti (e gli esiti) qui sono radicalmente diversi; ma non saremmo pronti a scommettere su una propensione dello stesso Rossellini a riconoscersi meno nel programma anacronistico di Munzi e Amelio che nelle filiazioni che a lui più espressamente si richiamavano (le pedagogie filmiche di cui si diceva).
Rossellini fu per alcuni anni – gli stessi in cui la “smania di produrre informazione educativa” lo infiammava – alla guida del Centro Sperimentale. È Amelio a ricordarcelo, parlando di questa sua “utopia fallimentare” (p. 144). Ma è proprio all’altezza di questa missione pedagogica che si può rinvenire in questo cinema un’eco della sua lezione, finanche in quell’appello alla tenerezza che pare risuonare fin nel titolo dell’ultimo film del regista calabrese.
Riferimenti bibliografici
G. Amelio, F. Munzi, L’ora di regia, Rubbettino-Edizioni di Bianco e Nero, Soveria Mannelli-Roma 2016.
J. Rancière, Il maestro ignorante, Mimesis, Milano 2008.
R. Rossellini, Programma per un’educazione permanente, in Id., Il mio metodo. Scritti e interviste, a cura di A. Aprà, Marsilio, Venezia 2006.