La mia filosofia è platonismo rovesciato:
quanto più lontano dal vero,
tanto più puro, bello e migliore.
La vita nella parvenza come fine.
(Friedrich Nietzsche)
Di primo acchito, la scelta di J. Robert Oppenheimer come protagonista di un film di Christopher Nolan sembrerebbe del tutto logica. La fascinazione del regista anglo-americano per i meccanismi complessi e l’avanguardia tecnologica trova perfetta incarnazione nel brillante fisico a capo del Progetto Manhattan, lo sforzo collettivo che produsse la bomba nucleare chiudendo l’epoca delle guerre mondiali e dando inizio alla Guerra fredda. Eppure, nonostante le indubbie affinità, ci sentiamo di sottolineare come notevole la scelta di Nolan di filmare la biografia di uno scienziato. Questo perché lo scienziato è innanzitutto e per definizione un campione della verità. Mentre il cinema di Nolan – dietro gli upgrade avveniristici fedele alla più antica tradizione hollywoodiana – è un cinema della bugia. Del nascondimento della verità.
Nel bel saggio da lui dedicatogli qualche anno fa, Massimo Zanichelli notava acutamente come molte delle preoccupazioni formali e contenutistiche di Nolan possano essere fatte risalire al tema della paura della morte, del tentativo di contrastarne l’ineluttabilità. Per questo i suoi protagonisti sono spesso segnati da lutti insuperabili. Per questo nel suo cinema pullulano le (apparenti) resurrezioni, dal Borden di The Prestige (2006) al Gordon di Il cavaliere oscuro (2008). A questo, forse, fa riferimento la stessa non-linearità dei suoi film, dove «la percezione dell’irreversibilità dell’esistenza, e dunque la consapevolezza della morte, è intrappolata in strutture temporali dalle forme reversibili, parallele o circolari, in grado di annullarne il contenuto lineare e terminale» (Zanichelli 2015, p. 16).
Quel che forse nemmeno lui sottolinea abbastanza è come questo horror vacui, questo intenso pessimismo riguardo al mondo e ai suoi fenomeni, si traduca per Nolan in un costante elogio del falso, della rappresentazione fittizia, dell’illusione e auto-illusione. Vero e proprio manifesto di tale tendenza è ancora oggi Memento (2000), originale detection à rebours dove il percorso in cerca della verità si arresta e si abiura volontariamente davanti all’intollerabilità di quest’ultima, rigettandosi all’infinito tra le braccia di una più pietosa nescienza.
Quest’inno all’illusione si tinge ovviamente, nell’opera di un cinefilo come Nolan, di una fortissima componente metatestuale. I suoi protagonisti (dal «prestigiatore» all’«architetto di sogni», passando per «l’uomo in maschera» Batman) sono sovente figure del regista, alter ego dello stesso Nolan le cui gesta demiurgiche ed eroiche trovano eco nel senso di protezione che egli sembra provare nei confronti del cinema come arte: la salvezza dell’umanità – da ottenersi tramite forme via via più sofisticate di auto-inganno – implica circolarmente e reciprocamente la salvezza del cinema in quanto luogo per eccellenza di rappresentazioni illusorie, dunque benigne.
Malgrado l’ovvia fascinazione per gli aspetti tecnico-scientifici della vicenda, dunque, a Nolan Oppenheimer sembra interessare meno come scienziato che non per come la sua vicenda offre terreno fertile all’innesto della sua personalissima concezione di superomismo, facendone l’ennesimo eroe-regista di una menzogna salvifica.
Che si tratti di un regista è evidente da diverse tracce narrative e stilistiche, alcune delle quali già notate da Luca Bandirali in queste stesse pagine: la cittadina di Los Alamos, laboratorio a cielo aperto di Oppenheimer, ricorda «il set di un film western»; il suo ruolo all’interno del progetto Manhattan non è tanto quello di contribuire con specifici contenuti, ma di coordinare il lavoro di altri scienziati/artisti all’interno di questo set; e la memorabile sequenza del test finale, che insiste quasi spielberghianamente sul tema dello sguardo (togliersi gli occhiali, uscire a contemplare da dietro un vetro), fa somigliare lo scoppio della bomba nei deserti del New Mexico alla più micidiale take mai girata nella storia del cinema. Quanto al senso storico e politico da attribuire a questa mise en scène, esso sembra diramarsi in almeno due diverse direzioni, entrambe riecheggianti – quasi piccoli auto remake interni – film precedenti dello stesso Nolan.
Da una parte, la singolare condotta di Oppenheimer negli anni seguenti ai bombardamenti sul Giappone non può che richiamare alla mente il finale di Il cavaliere oscuro. Se nel capolavoro del 2008 l’eroe diventava volutamente (e mendacemente) capro espiatorio di un’intera collettività, prendendosi le colpe del white knight Harvey Dent/Due Facce e mondando così l’anima di Gotham City, l’Oppenheimer post-1945 accetta con inspiegabile passività le umiliazioni della macchina del fango messa in moto dal Maccartismo, come a voler portare lui solo il fardello dei 200.000 morti delle atomiche. “Perchè non combatti?!” gli ripete ossessivamente la moglie interpretata da Emily Blunt, non capendo – come Strauss e Truman – che Robert vuole proprio questo: essere ricordato come padre dell’Atomica, padre di Hiroshima e Nagasaki, non solo di Trinity.
All’altro capo del labirinto troviamo ancora una volta Memento. Così come Leonard Shelby, detective neo-noir in cerca di una verità sfuggente, si imbatteva in un orrore tale da indurlo a volerla occultare in un loop infinito di scoperta e oblìo, l’Oppenheimer di Nolan è a sua volta protagonista di un percorso anti-epistemologico, paradossalmente in fuga dai risultati ultimi della scienza di cui è esponente. Tramite lo scoppio della bomba Robert sembra voler mostrare all’umanità, nel modo più sconvolgente e deflagrante possibile, quali mostri tenga a bada il sonno della ragione. In questo senso non va fraintesa la già citata sequenza del test, vero e proprio “prestigio” del grande illusionista: bisogna guardare, sì, ma per imparare a distogliere lo sguardo. Scoprire, ma per dimenticare. Uccidere, ma «to end all wars», come titola un documentario del 2023 dedicato alla figura del grande fisico.
Con Oppenheimer tornano prepotentemente alla ribalta quegli elementi politici del cinema nolaniano analizzati e criticati ad nauseam ai tempi della trilogia del Cavaliere Oscuro, amplificati dalla constatazione che stavolta Nolan maneggia materia storica vera e non fumetti DC. Torna la sfiducia antidemocratica nella collettività, frutto di un pessimismo talmente devastante da ritenere che l’unica realtà degna di essere vissuta sia quella artefatta del cinema e dell’inganno politico. Torna l’elogio (ripetiamo: superomistico) del singolo dotato di poteri intellettuali eccezionali, convinto che il fine giustifichi i mezzi della menzogna, e capace – nella sua statura sovrumana – di assumersene la colpa come un eroe al negativo, anche quando quella colpa ammonta a centinaia di migliaia di persone vaporizzate o straziate a vita dalle radiazioni.
Ancor più del cinismo sotteso a questa visione, a inquietare è la disinvoltura con cui Nolan sottopone la Storia a un processo di decostruzione temporale che ha l’effetto di ammantare autentiche mostruosità di un’aura teleologica e quasi provvidenzialistica. Un conto infatti è dire che dalle tragedie della Seconda guerra mondiale si può (ex post!) imparare molto sui limiti che vogliamo porci in quanto umanità; tutt’altro conto è raccontare due massacri di civili inermi come azioni dimostrative e cautelative preordinate, non importa quanto nobili gli intenti. Mi rendo conto di suonare provocatorio, ma che cosa diremmo di un film in cui ci viene raccontato che Hitler sterminò sei milioni di ebrei allo scopo di mostrare al mondo di quanto male fosse capace la razza umana, tramando eroicamente nell’ombra per passare alla storia come “il cattivo” e salvare la coscienza collettiva?
Ancora una volta, il problema più serio non è tanto il cinismo quanto la scommessa vertiginosa (al cui confronto le ucronie tarantiniane paiono giochi da bambini) di chi ritiene possibile e perfino opportuno ricombinare la Storia per trovarle un senso prestabilito ed eroico, non importa al prezzo di quali menzogne e occultamenti. Il John Ford di Liberty Valance (1962) chiedeva scusa per averlo fatto. Sessant’anni e infinite guerre americane dopo, il Nolan di Oppenheimer racconta storie della buonanotte alla coscienza della nazione.
In quello che è solo uno di molti affascinanti paradossi, Nolan ha girato un film paranoico di sapore settantino (tradizione che da Pakula giunge all’Oliver Stone di JFK) credente nixonianamente nel valore della menzogna, andreottianamente nel «male fatto per perseguire il bene». Per un altro paradosso, Oppenheimer è un film dalla superficie scientifica che però auspica, in un rovesciamento radicale del mito di Prometeo, che il fuoco della conoscenza sia restituito con timore religioso agli dèi, come la mela avvelenata di un Eden da non profanare. Che il monolito di Kubrick non discenda mai a trasformare scimmie beatamente ignoranti in uomini capaci di bruciare il mondo.
Riferimenti bibliografici
F. Nietzsche, La nascita della tragedia, Giulio Einaudi Editore, Torino 2009.
M. Zanichelli, Christopher Nolan. Il tempo, la maschera, il labirinto, Edizioni Bietti, Milano 2015.
Oppenheimer. Regia: Christopher Nolan; sceneggiatura: Christopher Nolan; montaggio: Jennifer Lame; fotografia: Hoyte van Hoytema; musiche: Ludwig Göransson; interpreti: Cillian Murphy, Emily Blunt, Matt Damon, Robert Downey Jr., Florence Pugh, Josh Hartnett, Casey Affleck, Rami Malek, Kenneth Branagh; produzione: Universal Pictures, Syncopy Films, Atlas Entertainment; distribuzione: Universal Pictures; origine: Regno Unito, Stati Uniti d’America; durata: 180′; anno: 2023.