Con il 2017 si chiude l’ammirevole impresa della rivista militante «Il Ponte», per mezzo delle omonime edizioni, di restituire alla comunità dei lettori le Opere complete di Walter Binni, uno dei grandi protagonisti della critica letteraria europea del secolo scorso. Ventidue volumi – curati con estrema dovizia filologica dal figlio Lanfranco – in cui è raccolta un’esperienza intellettuale ricchissima: dagli scritti su Dante a quelli sul Novecento, dagli interventi politici alle conferenze pubbliche. È pertanto difficile, se non riduttivo, offrire un sintetico riassunto della forza culturale veicolata dalle pagine di Binni, tale è la complessità del suo sguardo, l’arguzia della riflessione, la bellezza della scrittura.
Certo è che la sua attività intellettuale appare interamente legata a quell’utopia socialista – un socialismo che però mai si appaga di se stesso e anzi si propone d’essere continuamente verificato – in cui la libertà si affranca dal sistema capitalistico per darsi al tormentato e inaspettato ruolo di riformulazione della vita comune. E in questa problematicità dell’affratellamento umano, nel rischio di un suo rivolgimento egoistico, nella complessità insita in qualsivoglia forma non edonistica di liberazione, non può che vedersi, attiva lungo tutto l’arco della vita di Binni, la lezione intramontabile di Leopardi, il suo autore di riferimento.
Cosicché il terzo volume di queste Opere complete, dedicato agli scritti binniani sul poeta recanatese usciti tra il 1969 e il 1997, è una perfetta esemplificazione del modus operandi del critico perugino. D’altra parte, si ricorderà, è Binni, assieme a Cesare Luporini prima e a Sebastiano Timpanaro dopo, a strappare, nel Secondo Dopoguerra, Leopardi dalle grinfie del pensiero religioso ed estetizzante, governato da un misticismo conservatore e consolatorio, e a offrirci, nell’anno mirabile del 1947, quell’incisiva e persuasiva idea di una “nuova poetica leopardiana” (per usare le parole di un titolo notissimo), in cui il materialismo razionalistico e antiteistico del grande poeta veniva storicamente letto come una ribellione contro le logiche cattolico-liberali della Restaurazione e come viatico di un pensiero a un tempo rivoluzionario e pessimistico, fondato sulla necessità di una liberazione collettiva, eppure volto ad ammonire qualsiasi euforia programmatica, per mezzo di una riflessione sui limiti invalicabili della biologia umana e sulla labilità della condizione esistenziale. Pensiero, quello leopardiano, che non semplicemente beneficiava di una sua traduzione poetica, ma che dalla poesia traeva lingua argomentativa, dando vita a un’esperienza letteraria unica nel suo genere (forse oggi eccessivamente relegata all’ambito degli studi settoriali, che sovente la privano della sua profonda storicità e della sua attuale carica politica, che Binni ha contribuito nei suoi studi a esaltare).
Del resto, non poteva che nascere, questa netta presa di posizione sulle più comuni e semplificative esegesi di Leopardi, da una vocazione politica vivissima, dal senso di una battaglia comune, per la quale i valori della letteratura erano anzitutto veicolo d’espressione di possibilità alternative sul piano civile. È questa passione collettiva che spinge Binni – mi piace ricordarlo – a usare il “noi” piuttosto che l’“io”:
Per noi Leopardi […] parla al nostro tempo e agli uomini predisposti ad ascoltarlo, proprio perché il suo invito alla lotta per una società fraterna è legato al suo stesso estremo pessimismo circa la realtà umana, terrestre, cosmica, che esclude ogni scappatoia mistica, ogni illusione e mito ottimistico (p. 215).
Aggiungendo che in questa piena “organicità” di Leopardi al suo tempo e alla storia occorre vedere l’invito a “un cambiamento radicale di ogni comportamento personale ed interpersonale”, a “un ribaltamento dei fondamenti della prassi sociale: al posto dei miti e delle illusioni la verità, […] la verità intera […] che può fondare una nuova società volta al ‘bene comune’” (ibidem). Si tratta di una strada difficile da percorrere: l’intelligenza leopardiana, sembra suggerire Binni continuamente, sta nel mostrare l’estrema complessità dell’affratellamento sociale. Ed è per questo che Leopardi diveniva, in quegli anni, un antidoto al socialismo facile, cui opporre “una costante critica ad ogni costruzione che si consideri definitiva e ‘miticamente’ perfetta e felice” (p. 213). Non a caso Binni amava definirsi “pessimista rivoluzionario” – lo apprendiamo dalla raccolta di scritti militanti La disperata tensione –, assertore convinto, ancora attraverso Leopardi, di “una ragione concreta che demistifica la realtà” (p. 266), in cui chi scrive non può non vedere la sottile allusione a Gramsci, allo sforzo di costruire, senza entusiasmi, giorno per giorno, un’egemonia culturale in grado di orientare gli individui nel vivere associato, proteggendoli dal caos torbido della modernità.
Se dunque è doveroso rintracciare un insegnamento nella multiforme attività saggistica di Binni, questo va colto nello sforzo di ricondurre lo studio della tradizione a ragioni umane e sociali urgenti, facendosi guidare dalle necessità politiche del momento. Che oggi non sia così, è questione assai evidente: corrosi dal mito mortifero di un lutto umanistico che permette, al più, di guardare al passato come a un modello ormai alieno, i discorsi sulla letteratura – anche e soprattutto i discorsi sui classici della nostra letteratura, in tempi di blanda divulgazione televisiva – sembrano veicolare una sorta di rasserenante e protettiva nostalgia, un’immagine statica e religiosa del rifugio culturale, così riabilitando quel sentire mistico e irrazionale, oggi forse superficialmente entusiastico ed emozionale, contro cui Binni e gli intellettuali di quella generazione si battevano.
In altri termini: leggere le pagine di quella stagione può essere un utile antidoto all’orfanezza, purché non si ricada nella semplice contemplazione di un passato mitico in cui la critica aveva ancora un’evidente presenza sociale. Allora, è forse il caso di segnalare che le Opere complete di Binni potrebbero valere oggi come un cantiere aperto o come uno dei tanti modelli civili di critica letteraria militante, a patto di rilevarne la loro estrema collocazione nei problemi del tempo, persino di evidenziarne la prolifica faziosità, di coglierne cioè l’assoluta occasionalità, che è poi l’altra faccia di una profonda organicità ai problemi del tempo e alle questioni di lungo periodo. All’ironista postmoderno e al parlatore buono per tutte le stagioni si potrebbe allora preferire il dimesso e umile studioso capace di demistificare, nella sua “disperata serietà”, i “facili paradisi” (p. 166) del nostro tempo.
Riferimenti bibliografici
W. Binni, Opere complete, Il Ponte Editore, 22 vol., Firenze 2014-2017.
Id., Leopardi. Scritti 1969-1997, in W. Binni, cit.
www.fondowalterbinni.it