«Mi manderai un messaggio in bottiglia, si dice così?… Controllerò la spiaggia ogni giorno»
«Sì, “messaggio in bottiglia”,
ci metterò un bel selfie!».
Il mare e il selfie. Questa magnifica e ironica battuta, tra le pochissime pronunciate nel film, svela da subito il cuore profondo di DRIFT. Il folgorante esordio di Helena Wittmann, infatti, illumina proprio quell’impalpabile scarto tra tempi, modi e mezzi del navigare (o del vivere?) contemporaneo. Josefina e Theresa sono due donne che si incontrano su un’isoletta del Mare del Nord, stanno passando le ultime ore insieme prima di partire: l’una tornerà in Argentina, l’altra inizierà un lungo viaggio in barca verso la natia Germania. Le due donne sono ossessivamente filtrate da superfici riflettenti, con il punto macchina posto sempre a una certa distanza, come fosse un dispositivo di controllo che ne oggettifica lo sguardo alla ricerca di mere informazioni. Il montaggio, poi, ci concede solo scarti di dialoghi misteriosi: riti e miti che spaziano dalla Nuova Guinea alla Patagonia, dall’origine del Mondo a quella delle Storie (ma è nato prima il mondo o le storie che narrano la sua genesi?). Pian piano, però, l’inquadratura inizia ad aderire con il punto di vista di Theresa, proprio perché a quest’immagine-informazione serve il viaggio per tornare a sentire e serve uno sguardo per ri-estetizzare l’esperienza di visione.
Inizia l’immersione nelle onde. Quasi un’ora di film in cui la barca di Theresa solca il mare, perdendo ogni coordinata di tempo e spazio, in un mo(n)do non più geolocalizzabile o tracciabile. A Helena Whittman interessa solo il riflesso emotivo di questo divenire oltre la storia – ribaltando il punto di vista di Wavelength di Michael Snow (1967) evidentemente citato – e DRIFT diventa così una lunghissima e ipnotica soggettiva libera indiretta puntata sul mare. Senza parole, senza raccordi, senza pre-testo (che non sia la perdita di coordinate) e senza mete (che non siano le nuove-onde, quelle del web, che arriveranno nella parte finale del film). L’inquadratura è perennemente in bilico, sempre sulla soglia (della barca), lì dove si creano pieghe oltre il mezzo-di-trasporto posto teoricamente in fuori campo. Insomma un movimento ondulatorio che pian piano diventa sguardo aderendo all’acqua, al medium-primo della vita, in una completa rifigurazione dell’esperienza temporale.
Ecco allora: questa liminale fusione tra la tecnica (l’imbarcazione) e le pulsioni umane (di una persona) produce un’esperienza che non può esser altro che cinema. Helena Wittmann ci parla di miti e riti antichi, di nuovi media e piccoli device, per poi tornare al cinema come originario dispositivo di soggettivazione posto tra queste due dimensioni. La giovane regista tedesca punta a una herzoghiana “verità estatica” delle immagini alludendo a un pre-linguaggio plasmato ancora dai nostri sensi. Un esempio: le onde notturne inquadrate per quasi dieci minuti sono illuminate solo dalla luce della Luna, in un piano-sequenza che nel tempo diviene straordinariamente lunare, di un altro pianeta, aprendo a forme astratte e perturbanti che ci scuotono sulla sedia della sala (o davanti a un pc, ecc.) producendo ancora vertigini emotive. L’esperienza estetica di Theresa (e di noi spettatori) davanti all’oceano è simile a quella che Jean Epstein provava ai piedi dell’Etna, ossia
scoprire inopinatamente, come fosse la prima volta, tutte le cose nel loro aspetto divino, con il loro profilo simbolico e il loro più vasto senso di analogia, con un’aria di vita individuale, è questa la grande gioia del cinema. […] Uno dei più grandi poteri del cinema è il suo animismo (Epstein 2002, p. 46).
Un abisso dell’immagine posta ai confini del visibile, dove forme e volumi rinegoziano la loro significanza aprendosi al cinema come tecnica dei sogni collettivi. Per poi terminare il viaggio, in Germania, dove altre superfici riflettenti attendono Theresa, altri mezzi di trasporto ne filtrano i movimenti, altri schermi e altri dispositivi digitali ne mediano l’esperienza. DRIFT configura allora una sublime dialettica tra la mediazione radicale dei nostri tempi e le potenze prime dell’immagine cinematografica: in una stanza anonima le due amiche chiacchierano nuovamente, questa volta non più faccia a faccia ma da una video-chat perennemente aperta sul laptop di Theresa. E vivono la loro quotidianità: l’una sistema la sua casa in Argentina, l’altra prepara un caffè in Germania, ascoltando la soave Baby di Donnie e Joe Emerson. Sul vetro di una finestra, però, la fotografia analogica di un’onda attrae nuovamente l’inquadratura in un ipnotico zoom, un inesorabile (falso) movimento che ci inghiotte di nuovo nell’acqua, sino a perdere i confini dell’immagine, sino a sfumare nuovamente ogni mediazione. È il cinema a balenare in quello scarto: onda visibile che attrae gli sguardi solcando ancora le superfici della vita… e come fosse la prima volta…
Riferimenti bibliografici
J. Epstein, Il cinematografo visto dall’Etna, in Id., L’essenza del cinema, scritti sulla settima arte, a cura di V. Pasquali, Bianco & Nero, Roma 2002.
R. De Gaetano, Il visibile cinematografico, Bulzoni, Roma 2002.
G. Paganelli, Segni di vita. Werner Herzog e il cinema, Il Castoro, Torino 2008.