La scomparsa di Germano Celant (Genova 1940 — Milano 2020) è una di quelle notizie che colpisce duramente il mondo dell’arte internazionale. Del resto stiamo parlando del creatore dell’ultimo movimento artistico del XX secolo, l’Arte Povera. Ovvero un insieme di artisti per certi versi eterogenei, ciascuno con una sua poetica ben precisa, che sono stati riuniti insieme alla fine degli anni ’60 sotto l’egida di un rinnovato rapporto tra arte e natura, materia e spazio, riaffermando così, come avevano già fatto le avanguardie storiche, il definitivo superamento della cornice del quadro. Pistoletto, Anselmo, Zorio, Penone, Boetti, Paolini, Pascali, Kounellis, Gilardi ed altri, si sono riconosciuti sotto questa etichetta che, al tempo stesso, ha rappresentato anche un’acuta operazione di marketing estetico e culturale. Ma sempre molto meno della Transavanguardia, inventata vent’anni dopo unicamente per ricominciare a vendere quadri.
Nel prezioso volume, Arte Povera, edito da Mazzotta nel 1969, che seguiva la mostra de La Bertesca a Genova e l’evento agli Arsenali di Amalfi (dove il critico giocava in squadra), Celant scriveva:
L’arte, la vita, la politica povera non sono apparenti o teoriche, non credono nel loro “mettersi in mostra”, non si abbandonano alla loro definizione, non credono neppure nella vita, nell’arte, nella politica povera, non hanno come obiettivo il processo di rappresentazione della vita; vogliono solo sentire, conoscere, agire la realtà; consapevoli che ciò che importa non è la vita, il lavoro, l’azione, ma la condizione in cui la vita, il lavoro, l’azione si svolgono.
E aggiungeva:
La realtà, di cui ogni giorno si partecipa, è nella sua piatta assurdità un fatto politico, è più reale di qualsiasi elemento riconoscibile intellettualisticamente; così l’arte, la vita, la politica povera, come la realtà, non rimandano, ma si offrono, autopresentandosi, si presentano allo stato di essenza.
La vera rivoluzione delle opere e delle azioni povere, secondo un spirito inevitabilmente intriso di ideologia (anche se, in effetti, resta un gruppo di artisti mosso da motivazioni estetiche più che politiche) fu quella di superare definitivamente la logica della rappresentazione per offrirsi agli occhi del pubblico senza mediazioni. Se non quella del critico, che teorizzava il senso di una poetica al fine di cucire insieme esperienze diverse, pur riflettenti un bisogno di rinnovamento nel mondo dell’arte.
Ancora oggi, oltre ad essere uno dei pochi momenti e movimenti dell’arte italiana più conosciuti e celebrati all’estero, l’Arte Povera ha portato in alto le quotazioni degli artisti aderenti a questo gruppo, incluse quelle di colui che questo brand lo ha concepito e che probabilmente è stato tra i critici più pagati al mondo, fino ad essere contestato per il compenso di 750.000 euro percepito per la mostra Arts & Foods allestita nel 2015 presso la Triennale in occasione dell’Expo milanese. Celant, infatti, non è stato solo un grande curatore (un po’ più labile come teorico per la verità), ma, a partire dal 1977 — anno in cui viene chiamato al Guggenheim di New York — era diventato una delle personalità che negli ultimi quattro decenni ha contribuito non poco a edificare il sistema dell’arte così come lo conosciamo, con tutte le storture e le deformazioni del mercato, al punto tale da abdicare dalla sua funzione spirituale slittando pericolosamente verso una funzione puramente mercantile.
Detto ciò, va riconosciuto a Celant la genialità di alcune operazioni, la cura di grandi mostre spesso tematiche o di carattere retrospettivo, rimaste nella storia. Elencare anche solo le principali sarebbe lungo, così come citare i cataloghi ragionati sui vari artisti e le altre numerose pubblicazioni dedicate ai maggiori artisti internazionali. A parte le monografiche su Jim Dine, Claes Oldenburg, Dennis Oppenheim, Louise Nevelson, Christo, Richard Artschwager, vale la pena ricordare le esposizioni più significative dedicate all’arte italiana: da Conceptual Art – Arte Povera – Land Art alla Galleria Civica d’Arte Moderna di Torino nel 1970 a Identité Italienne. L’art en Italie depuis 1959 (Centre Pompidou, 1981); da Mario Merz Unreal City al Guggenheim nel 1989 ad Arte Italiana. Presenze 1900-1945, co-curata insieme a Pontus Hulten nel 1989 a Palazzo Grassi; da Italian Metamorphosis 1943-1968 al Guggenheim nel 1994 al “prequel” Post Zang Tumb Tuuum. Art Life Politics: Italia 1918–1943, allestita alla Fondazione Prada nel 2018.
E come non citare le sue ultime due importanti monografiche del 2019: la prima dedicata a Emilio Vedova al Palazzo Reale di Milano e la seconda su Kounellis alla Fondazione Prada di Venezia, inaugurata un anno fa in occasione della Biennale con una sessantina di lavori del grande artista realizzati tra il 1959 e il 2015 — probabilmente una delle cose migliori viste in quel contesto. E nel 1997 Celant aveva diretto XLVII Esposizione Internazionale d’Arte dal titolo Futuro Presente Passato – con star quali Abramovic, Gordon, Kiefer, Baldessari, Cragg, Dibbets, Koons — dichiarando: «È un’esposizione che attraversa l’arte come fosse una galassia infinita e inafferrabile».
Essenziale è stata poi la riflessione di Celant sul rapporto tra le arti e sull’intermedialità, a cominciare proprio dalla mostra Offmedia allestita nel 1977 a Bari, accompagnata da una pubblicazione (edita da Dedalo), in cui Celant esplorava le nuove forme e tecniche artistiche basate sul videotape, sul vinile e sul libro. In questo senso sono state significativi altri eventi da lui curati come la Biennale Arte e Moda a Firenze nel 1996, che ha aperto un nuovo fronte elevando a dignità il fashion design e approfondendo i suoi rapporti con le arti visive, nonché la mostra Arti e Architetture a Genova nel 2004 e, nel 2014, Art or Sound, dove invece esplorava a 360°, partendo come sempre dal futurismo, tutte le interferenze tra arti visive, musica e suono. Questa ennesima retrospettiva fu allestita a Milano alla Fondazione Prada, di cui Celant è stato direttore artistico (dal 1995 al 2014), luogo frutto di un originale ripensamento degli spazi di archeologia industriale, dove spiccano opere e installazioni di grande valore estetico ma anche di assoluta spettacolarità.
Tutta la carriera del curatore genovese si è configurata sotto il segno della spettacolarità oltre che della ricerca, del pensare in grande in una dimensione internazionale che lo ha da sempre allontanato dal provincialismo dell’arte italiana. Celant ha voluto essere sempre un uomo solo al comando (come lamentava Barilli in questi giorni), spigoloso e altezzoso, ma al tempo stesso dotato di grande intuito, con un suo distacco e una sua autorevolezza quasi nobiliare, marcata dal suo indossare giacche o eleganti giubbotti di pelle sempre rigorosamente di color nero, su cui da decenni spiccava la folta chioma bianca.
Riferimenti bibliografici
G. Celant, Arte povera, Gabriele Mazzotta Editore, Milano 1969.
Id., Offmedia, Nuove tecniche artistiche: video disco libro, Dedalo, Bari 1977.
Id., P. Hulten, a cura di, Arte italiana. Presenze 1900-1945, Bompiani, Milano 1989.
Id., a cura di, Futuro Presente Passato, catalogo della XLVII Esposizione Internazionale d’Arte Futuro Presente Passato, La Biennale di Venezia/Electa, Milano 1997.
Id., Arts & Foods, Electa, Milano 2015.
Id., Fotografia maledetta e non, Feltrinelli, Milano 2015.
Germano Celant. Genova 1940 — Milano 2020.