In genere le retrospettive complete allestite in omaggio a un autore o sono un imprescindibile supporto filologico nel quadro di una riscoperta e risarcimento o costituiscono un doveroso omaggio periodico a un regista o un attore che non ha bisogno di rivalutazioni. Nel caso della retrospettiva completa del cinema di Douglas Sirk, evento del Festival di Locarno, ci troviamo difronte a una via di mezzo visto che il maestro tedesco-americano del melodramma è stato già abbondantemente riscoperto e a livello editoriale abbastanza studiato ed esplorato, ma non si può dire che i conti − almeno della critica italiana − siano del tutto chiusi. Naturalmente stiamo parlando di un importante festival internazionale che prima o poi non poteva non focalizzare il cinema di Sirk a maggior ragione che il regista ha soggiornato a lungo fino alla morte a Lugano, anche se da sempre l’Italia sia pure nel contesto della Svizzera italiana, ha un peso rilevante in termini di presenza critica, di peso mediatico, di affluenza di un pubblico di appassionati e cinefili.
Quindi sull’evento pesano inevitabilmente − per quanto riguarda l’Italia − certe scorie del riconoscimento della grandezza di Sirk ma subordinato al “si però”, certe riserve che si trascinano da tempo – complice il genere di cui è stato maestro, quel melodramma che in termini critici ha fatto numerose vittime – e che in qualche modo sono state rimosse, certe clamorose lacune editoriali (il meglio della produzione critica è ancora quella anglo-francese degli anni ’70 e ’80) tanto è vero che solo adesso con una tempestiva (?) iniziativa funzionale alla retrospettiva locarnese, viene pubblicato in italiano dal Saggiatore l’ancora fondamentale libro-intevista di Jon Halliday Sirk on Sirk (1971) con il titolo Lo specchio della vita, edizione arricchita da uno scritto critico inedito di Fassbinder e una postfazione di Goffredo Fofi che non lo ricordiamo negli anni dell’attenzione italiana verso il melodramma sirkiano tra i maggiori estimatori. Comunque a poco più di cinquant’anni il testo vede la luce in italiano e al di là di una comprensibile strategia legata al Festival, questo la dice lunga su alcune radicate miopie della nostra critica che tra equivoci e ambiguità si trascinano senza fare uno sforzo di autocritica e di una ricognizione con la necessaria onestà intellettuale. Anche se una ricaduta tra fine anni ’70 e primi ’80 c’è stata anche nel nostro paese (la retrospettiva curata da Giovanni Spagnoletti, un bel ciclo televisivo, un maggiore interesse delle riviste specializzate).
Ma al di là di una ormai improduttiva querelle critica per stabilire chi è arrivato prima nel valutare quasi in tempo reale la statura artistica e il fondamentale peso espressivo dell’autore tedesco, nella definizione del grande melodramma americano declinato soprattutto sul versante familiare, oggi quel che interessa è l’“attualità” di Sirk e del suo cinema, uno sguardo postmoderno sul melodramma per affrancarlo da una visione tradizionalistica del genere e dei suoi codici, per risemantizzare alcune categorie estetiche, linguistiche ed espressive per troppo tempo argomenti presi in ostaggio da una critica vecchia in chiave contenutistica e ideologica. È quasi scontato che in una filmografia abbastanza composita e diversificata anche in altri generi, quello che interessa ai fini di una modernità linguistica ed estetica è il ciclo d’oro dei grandi melodrammi che hanno reso famoso l’autore, quello con il quale ha “sfidato” sul suo stesso terreno lo studio/star system hollywoodiano. Quello che ha fatto inevitabilmente (e ingiustamente) passare in secondo piano la complessità di un autore con una vocazione sperimentale prima da giovane negli anni ’30 e poi dopo l’avventura hollywoodiana con alcuni corti realizzati con la Scuola di Cinema di Monaco di Fassbinder al quale è stato legato da profonda amicizia e una stima e ammirazione reciproca.
Dando per scontato che qualunque autore – che sia tale – mette in gioco le sue caratteristiche espressive in tutti i generi che pratica, fa sentire la sua cifra stilistica magari mimetizzata, metabolizzata, rivendicando una lettura che vada oltre la facile associazione al genere che lo ha reso famoso, per Sirk gioco-forza non si può non considerare centrale ed esemplificativo il ciclo dei melodrammi segnati dal felice sodalizio con Rock Hudson, il suo attore-feticcio, che lui a partire da Il capitalista ha plasmato sublimando la sua congenita legnosità in un’icona imprescindibile quale veicolo di amori e passioni. Un binomio che ha prodotto 9 film. Prima durante e dopo i suoi melò Sirk si è misurato con la commedia, il bellico, l’avventuroso in costume, il noir, il gotico, il western ma è il melodramma quello che ha esplorato con maggiore intensità e consapevolezza teorica, intuendo tempestivamente che era quello a lui più congeniale per raccontare/rappresentare una certa America. E ha spinto il melodramma, genere che affonda le radici nella tragedia greca e shakespeariana, sul versante familiare, estremizzando il suo coté eccessivo perché come scriveva Adriano Aprà nel 1976: «Il melodramma è sempre eccessivo poiché mette in scena dei materiali per così dire a nudo».
E poiché noi viviamo da tempo in una società eccessiva, condividiamo eccessi di vario tipo, non dovrebbe essere un problema fare i conti culturali con un cinema dell’eccesso, gli eccessi fisiologici e strutturali del melodramma non dovrebbero attivare ancora remore e resistenze nei confronti delle accelerazioni sentimentali, degli estremistici coinvolgimenti emotivi del genere. Anche se poi non sappiamo quanto e come possano incontrarsi e coesistere gli eccessi universali del melodramma che non hanno tempo con la frenesia esibizionistica contemporanea da social, quali possono essere le zone di cortocircuito tra la messa in scena di materiali a nudo e la messa in scena permanente e in tempo reale di tanti – giovani soprattutto – smaniosi di mettere a nudo il desiderio di protagonismo.
Comunque il blocco dei melò Magnifica ossessione (1953), Secondo amore (1955), Come le foglie al vento (1956), Il trapezio della vita (1957), Lo specchio della vita (1958) è quello che meglio esemplifica ed evidenzia la strategia sirkiana di spingere il genere oltre i suoi codici tradizionali, le convenzioni espressive, gli stereotipi linguistici. A cominciare dall’uso imprescindibile del colore, dell’illuminazione, della scenografia. Ma Sirk entra “a gamba tesa” in quello che negli anni ’50 era già un collaudato bagaglio espressivo e un accettato universo narrativo mitico. E quindi il melodramma domestico e familiare si svolge in un territorio ristretto: tutto accade all’interno e i valori drammatici si sublimano nelle scene, nel colore, nel gesto e nella composizione dell’inquadratura. La forze estetica di questo cinema risiede fondamentalmente nei modi in cui il personaggio si traduce in azione e l’azione in gesto e spazio dinamico. Il mondo è chiuso, i soggetti subiscono gli eventi, il protagonista è quasi sempre incapace di agire, in assenza di un mondo esterno su cui agire, i personaggi sono gli unici punti di riferimento reciproci, ognuno è costretto a guardare dentro gli altri e dentro se stesso.
I migliori melodrammi adottano un procedimento di complessa e articolata simbolizzazione del quotidiano, condensando nell’uso particolare di ambientazione e décor il gesto comune. Al consenso entusiastico che il genere incontrò nell’America del dopoguerra contribuirono anche la psicoanalisi e i temi freudiani in particolare. Le implicazioni psicoanalitiche entrano in gioco soprattutto negli scontri generazionali con protagonista per eccellenza la classe media. L’arredamento della middle-class trabocca di oggetti che si affollano intorno alle persone, le accerchiano, ne invadono la sfera d’azione. L’atmosfera è quella claustrofobica della dimora borghese e/o della cittadina di provincia, dove serpeggiano paure e isterie latenti, espresse con un uso significante dello spazio degli interni. L’aggressività, la tensione morale, l’emozione improvvisa si esasperano nel melodramma e diventano veri e propri segni di alienazione e quindi elementi di critica all’ideologia che ne è alla base. Più di qualsiasi altro genere, il melodramma controlla e manipola gli strumenti di dominio e di sfruttamento della società e influisce sulle complesse relazioni che si stabiliscono tra psicologia, moralità e coscienza di classe. E questo avviene grazie all’uso frequente di una simbologia esplicitamente sessuale, come l’impotenza maschile e la frigidità femminile. Al centro del plot c’è naturalmente la donna, che difronte al destino imperscrutabile si mostra spesso apertamente trasgressiva, professa subito il suo desiderio, la sua passione. E nella variante noir del melodramma la protagonista femminile prende la forma di donne fatali, attraenti e pericolose, seducenti e perfide che alternano frigidità e angoscia sessuale a spregiudicatezza e aggressività erotica.
In questo panorama Sirk si inserisce con una posizione più complessa. Le caratteristiche tecnico-stilistiche dei suoi melodrammi si possono così riassumere: a) un uso creativo della discontinuità nella costruzione del plot; b) la m.d.p. rimane sempre a una certa distanza dagli attori per sottolineare il distacco dai personaggi, mentre la sua quasi costante mobilità implica un coinvolgimento emotivo dello spettatore. Dominano i campi lunghi e medi e i piani americani, quasi inesistenti i primi piani e i campi/controcampi; c) è proprio questa “contraddizione” tra la mobilità e la distanza a determinare una dialettica, che è l’aspetto più dinamico del sistema sirkiano; d) nella struttura narrativa nessuna scena può essere osservata isolata dal tutto. Le sezioni non si combinano per addizione ma come pezzi di un puzzle, il cui schema finale è stato preparato a priori. L’ordine in cui sono disposti non è di capitale importanza, ma nessuno di essi ha significato se non è riferito all’insieme. È solo nell’ambito dell’architettura visiva generale che un’inquadratura (o una sequenza singola) esprime tutti i suoi significati; e) l’utilizzo frequente di una narrazione ellittica, il cui massimo esempio è Come le foglie al vento.
Chiusi in un labirinto di specchi reali e metaforici, i personaggi sirkiani sono impegnati in un costante sforzo di affermare se stessi. La classe borghese è imprigionata dal conformismo sociale e dalla nevrosi; il percorso per la realizzazione personale, così forte nell’ideologia americana, finisce per essere guidato da un impulso autodistruttivo. Questi film raccontano piccole tragedie e il ricorso al melodramma nasce dalla convinzione che il mondo moderno è stato “prosciugato” del potenziale necessario a produrre storie di vera dimensione tragica. Il decennio del dopoguerra registra un’ulteriore diminuzione della fiducia nella possibilità dell’eroismo. E Sirk è stato con Welles l’unico a riproporre un tipo di personaggio che possa esistere in quanto eroe. Compassione ma anche simpatia egli prova per una classe opulenta, vittima proprio della ricchezza e intrappolata dal benessere. In fondo, ha semplicemente descritto una società con una facciata solida e sana ma di fatto fragile e lacerata da nevrosi collettive.
Riferimenti bibliografici
J. Hallday, D. Sirk, Lo specchio della vita, ed. italiana a cura di A. Inzerillo, Il Saggiatore, Milano 2022.
Douglas Sirk, 26 aprile 1897 − 14 gennaio 1987.