Il cinema non deve limitarsi a ricreare
azioni simili alla vita;
il cinema deve essere già parte
dell’azione e della vita
.
Arthur Penn 

Sentir parlare Arthur Penn per quasi quattro ore – tanto dura lo stupendo documentario/intervista del 2014 diretto da Amir Naderi e riproposto all’interno della retrospettiva che la sedicesima edizione della Festa del Cinema di Roma ha dedicato al grande regista americano – ha qualcosa di familiare. È come tornare alle origini di una passione pura e incondizionata: il cinema come parte in divenire della vita e la cinefilia come punto di vista sul mondo. A tal proposito, c’è un momento rivelatore in questo Mise en scène with Arthur Penn (nel quale André Bazin, non c’è bisogno di dirlo, sopravvive in ogni singolo discorso): l’allievo entusiasta Amir chiede all’anziano maestro Arthur perché in principio fosse così dubbioso sulla sceneggiatura firmata da David Newman e Robert Benton, quindi sulla proposta di dirigere Gangster Story (Bonnie and Clyde, 1967). Penn attende un attimo, riflette, poi risponde istintivamente: “Io non comprendevo del tutto quella storia, mi pareva ovvia, sino a quando mi sono reso conto che doveva essere il cinema stesso a compensarla”. E letteralmente inizia a mimarne l’esperienza del set: “Argh, mmmh, ghhh!”, insomma Faye Dunaway/Bonnie Parker e Warren Beatty/Clyde Barrow dovevano gioire, addolorarsi, contorcersi di passioni e la regia doveva condividerne ogni slancio rispettandone tempi e sentimenti. Ecco, potremmo anche fermarci qui: che in quel 1967 Arthur Penn fosse già diventato da tempo uno dei cineasti di riferimento dei “Cahiers du cinéma” non può certo stupirci.

Del resto, questa sincera prossimità emotiva del dispositivo cinematografico alla contingenza dei personaggi è un tratto caratteristico della regia di Penn sin dalla sua prima inquadratura ufficiale. Ossia il piano-sequenza sui titoli di testa di Furia selvaggia (The Left Handed Gun, 1958) dove Billy The Kid si avvicina in profondità di campo sgraziato, confuso e claudicante (non proprio tre caratteristiche che si addicono al divo Paul Newman che lo interpreta, a proposito di demitizzazione), in un bianco e nero contrastatissimo che assorbe il western fondativo di Ford e Hawks attualizzandolo in primi piani insistiti e derive formali inaspettate. La scintilla di una nuova era posta tra ordine e disordine. Il cinema americano inizia a frammentare l’epos delle sue strutture narrative in falsi raccordi, tempi dilatati e recitazione introspettiva restituendoci uno universo emotivo in tumulto e non più un incedere narrativo suturato. Un film che riconvoca una delle icone classiche del western (dopo Larry Trimble nel 1911, King Vidor nel 1930, Howard Hughes nel 1943 e poi almeno altre dieci trasposizioni) attualizzando soprattutto la passione umana di un figlio che s’immerge nel trauma edipico dopo la morte di un padre idealizzato.

In fondo, la stessa vita di Arthur Penn sarebbe stata una grande sceneggiatura per un film di Sam Fuller o Nicholas Ray. L’arruolamento nell’esercito a diciannove anni durante la Seconda guerra mondiale e i lunghi soggiorni in Europa (il più europeo dei grandi registi americani, si è spesso detto); la passione per la fotografia ereditata dal celebre fratello Irving e la frequentazione dell’Actors Studio prima di esordire a Broadway; infine, i fitti contatti con Truffaut e Godard e l’incontro definitivo con Hollywood (che ha contribuito attivamente a ridefinire come “New”). Insomma, tra la fine degli anni cinquanta e gli inizi degli anni ottanta, Penn ha riattraversato i generi classici spesso ribaltandone il portato ideologico perché filtrati «attraverso un vetro, in modo oscuro», come ripete più volte l’anziano Tunstall a Billy The Kid citando la prima lettera di San Paolo ai Corinzi.

E allora: dal gangster movie rivoluzionario (Bonnie and Clyde), al western romanzesco e revisionista (Il piccolo grande uomo, Little Big Man, 1970); dal melodramma sociale che riflette sul maccartismo (La caccia, The Chase, 1966), alla commedia di costume che riflette sulla controcultura sessantottina (Alice’s Restaurant, 1969); dal neo-noir sui traumi post kennediani (Bersaglio di notte, Night Moves, 1975), al racconto di formazione sulla fine delle utopie (Gli amici di Georgia, Four Friends, 1981). Ogni segno classico – compreso il portato iconico delle star, da Newman a Brando – viene rifunzionalizzato e aperto a nuove frontiere di senso – dalla morale sessuale all’urgente riflessione sulla violenza negli anni sessanta – facendo esplodere molti nodi identitari irrisolti in una radicale messa in discussione del mito dell’eccezionalismo americano. Insomma, Penn è stato il regista “moderno” per eccellenza, che più di ogni altro ha innovato il cinema di Hollywood restandosene poi in disparte a osservare i frutti della sua eredità formale (Scorsese, Coppola e Friedkin gli devono moltissimo, se non altro per la seminale ultima sequenza di Bonnie and Clyde).

È tutta una questione di punti di vista, certo. “Point of view”, non a caso, è il nome della nave dei misteri di Bersaglio di notte: il detective privato Harry Moseby/Gene Hackman racconta di una famosa partita a scacchi negli anni venti, quando un abilissimo giocatore aveva la possibilità di fare scacco matto in tre facili mosse ma non riuscì a vederle e perse la partita. La verità è sempre sulla superficie delle cose ma rimane celata allo sguardo, bisogna quindi saper interpretare i riflessi del mondo per coglierla nella sua complessità (cosa che lo stesso Harry Moseby non riuscirà mai a fare).

Da questo punto di vista, il personaggio di Danilo Prozor in Gli amici di Georgia è forse quello che più di tutti riassume il percorso registico di Penn. In quella straziante stretta di mano finale tra un vecchio e burbero padre immigrato che se ne torna in Europa e il suo giovane figlio ferito e disilluso che incarna il (fallimento del) sogno americano, si agitano le potenze di un cinema che proprio attraverso i riflessi accecanti della verità – quanti vetri, occhiali, specchi, schermi offuscano la vista dei protagonisti penniani? – ha fatto balenare nuove consapevolezze. Riflessi che arrivano come epifanie visive meravigliose e terribili nello stesso tempo – lo sguardo tenerissimo tra Bonnie e Clyde prima della morte violenta, il traumatico svelamento finale di Bersaglio di notte o gli occhi sgranati di Danilo Prozor che scoprono la bandiera americana in fiamme – a testimoniare la fiducia sconfinata nello spettatore concepito come parte attiva del processo filmico.

Ecco allora, rivedere oggi i film di Penn e riascoltare le sue parole (che li rendono ancor più enigmatici, quindi paradossalmente più vicini alla vita) è un raro privilegio per lo spettatore contemporaneo. Perché proprio nella nostra epoca di narrazioni transmediali, informazioni profilate e fluviali visioni algoritmiche le immagini create da Arthur Penn tramandano un’originaria lezione di etica dello sguardo: la messa in scena del dubbio.

Arthur Penn, Filadelfia 1922 – New York 2010.

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