Che cos’ha fatto Stanley Kubrick in questi venti anni successivi alla sua morte? Ha continuato ad influenzare, con i problemi artistici posti e le soluzioni estetiche trovate, tanto i nuovi teorici del cinema quanto i giovani autori dell’industria culturale col mito della settima arte (per non parlare delle altre categorie: si ascolti solo il disco dei Soulsavers Kubrick, datato 2015). Un esempio italiano recente della prima categoria è costituito dal volume che Michele Guerra (già autore nel 2007 di Il meccanismo indifferente, sulla concezione della Storia nel cinema di SK) e il fisiologo Vittorio Gallese (uno degli scopritori dei neuroni-specchio) hanno dedicato ai rapporti tra cinema e neuroscienze: il capitolo su movimenti di macchina e cognizione motoria contiene un “intermezzo kubrickiano” che prende alla lettera l’indicazione di Gilles Deleuze secondo cui quello di SK è un “cinema del cervello” sia per il suo carattere intellettuale sia perché mette in scena mondi-cervello variamente metaforici (dal monolite di 2001 all’Overlook Hotel di Shining). Il metodo Kubrick, per i teorici della simulazione incarnata, consiste nella volontà di far corrispondere al nucleo tematico del film (la violenza, il potere, Deleuze aggiungerebbe la morte) una sfida tecnica – d’avanguardia quando serve – che regoli l’interazione tra lo spettatore e lo schermo:
Arancia meccanica (1971) è il film in cui il grandangolo problematizza la tenuta dei movimenti di macchina, della camera fissa o del ralenti; Barry Lyndon (1975) è il film dello zoom; Shining (1980) della Steadicam; Full Metal Jacket (1987) della dialettica tra il carrello e la macchina a mano (Gallese, Guerra 2015, p. 149).
Un esempio italiano recente della seconda categoria è Paolo Sorrentino, il quale – ben cosciente (come il protagonista di The Young Pope, una serie che inizia con un Cristo rovesciato degno del drugo Alex) che la categoria di regista “più bravo” (che un’esperta di marketing assegna a Spielberg) è meno interessante del titolo di “regista più importante del mondo” (che spetta al carismatico Kubrick, resosi invisibile come Salinger o Banksy) – nella prima parte di Loro mostra le sue ascendenze miscelando Kubrick con Antonioni: il passaggio Roma/Sardegna avviene con un passaggio notte/giorno che inverte quello del celebre stacco dall’osso all’astronave; salvo che a saltare in aria (in un’esplosione che rimanda al finale di Zabriskie Point) è della spazzatura e ciò che ricade sono pasticche di droga.
Ovviamente, dal 2001 ognuno s’è divertito a parodizzare, citare, omaggiare, copiare e insomma postmodernizzare il maestro. Il regista di L’ultima parola (Roach, 2016), con la scusa di avere a che fare con Dalton Trumbo sceneggiatore di Spartacus (1960), rifà la scena in cui il gladiatore lancia il tridente in direzione macchina da presa (cioè contro gli spettatori): non un remake, ma un vero e proprio falso come l’omaggio di Van Sant a Psycho di Hitchcock. Yorgos Lanthimos, che in La favorita (2018) gioca a “modernizzare” ovvero “hollywoodizzare” (si può dire “oscarizzare”?) Barry Lyndon (il film dello zoom, che pone la Storia alle distanze glaciali consentite dall’understatement pittorico e dalla voce fuori campo), sembra impegnarsi nell’uccisione del mostro sacro: e infatti un titolo come The Killing of a Sacred Deer (2017) rimanda al titolo originale di Rapina a mano armata (appunto The Killing: che il cervo sacro sia Stanley?) per una storia che ricicla la Nicole Kidman di Eyes Wide Shut (1999).
Steven Spielberg, in una scena di Ready Player One (2018) in cui si va a cercare l’inventore del mondo virtuale Oasis dentro il suo ricordo di un incontro sentimentale al cinema in cui danno Shining (presentato come opera che non è piaciuta al suo autore, cioè Stephen King), fa entrare i suoi personaggi dentro l’Overlook Hotel con la stessa nonchalance con cui Zbig Rybczynski faceva entrare i turisti di Steps (1987) dentro La corazzata Potemkin. Ma questo divertissement può essere perdonato all’esecutore testamentario scelto per portare a termine il progetto A.I.: il film scritto e diretto da Spielberg nel fatidico 2001 si presenta come una Amblin/Stanley Kubrick production, con Jan Harlan (fratello della vedova Kubrick, nonché autore nel fatidico 2001 del documentario Stanley Kubrick: A Life in Pictures) come co-produttore esecutivo.
Naturalmente A.I. è un film spielberghiano, eppure si capisce che il regista “più bravo” ha provato ad entrare nella logica del “regista più importante del mondo”: se l’immagine del monolite circondato dalle scimmie è una riflessione sul tema dell’accoppiata King Kong/Empire State Building, il finale nella New York ghiacciata e de-umanizzata (con uno skyline in cui ancora si riconoscono le Twin Towers) ripropone quel cerchio fantascientifico mettendo il mecha David al centro e gli extraterrestri tutt’attorno; a indicare, questa volta, la sopravvivenza del cinema come automa spirituale, segnale di civiltà per intelligenze aliene.
Uno dei tasselli più importanti del dopo-Kubrick è merito dell’università di Monaco: il professore emerito Rainer Crone (1943-2016), un esperto di Warhol che lavora spesso negli Stati Uniti, spinge i suoi studenti a scoprire dove si trovano i negativi originali della rivista fotografica Look (attiva dal 1937 al 1971) e finisce col mettere le mani sul pezzo mancante agli Stanley Kubrick Archives, cioè il lavoro svolto dall’intraprendente teenager del Bronx nel lustro 1945/50; ne viene fuori una mostra itinerante (a Milano e Venezia nel 2010) con relativo catalogo non esaustivo.
Il Kubrick fotografo si rivela una miniera tanto per gli editi quanto per gli inediti: tra istanti decisivi alla Cartier-Bresson (il creatore della Magnum che avrebbe dovuto fare il fotografo di scena per il western mai realizzato da SK con Marlon Brando), scene urbane alla Weegee (autore del libro da cui Dassin ha tratto il film La città nuda, set visitato da SK, che poi ha voluto Weegee come fotografo di scena del Dottor Stranamore) e freaks alla Diane Arbus (poi omaggiata con le gemelle di Shining), quello che viene fuori è un repertorio di composizioni che l’autore utilizzerà nel corso della carriera registica: si confronti solo il nudo di schiena che apre Eyes Wide Shut con la modella del cartoonist Peter Arno immortalata nel numero di Look del 13 settembre 1949.
Insomma, se si considera il continuo arrivo di nuovo materiale (giusto l’anno scorso la sceneggiatura del 1956 tratta dal racconto di Stefan Zweig Bruciante segreto), si può dire che – a vent’anni dalla sua scomparsa – Stanley Kubrick è vivo. Del resto, come sanno i giocatori di scacchi di New York, sono sempre gli altri che muoiono.
Riferimenti bibliografici
E. Carocci, a cura di, Stanley Kubrick, Marsilio, Venezia 2019.
F. Crone, Stanley Kubrick fotografie 1945-1950, Giunti, Firenze 2010.
V. Gallese, M. Guerra, Lo schermo empatico, Raffaello Cortina, Milano 2015.