«Ricordatevi di vivere al servizio dell’umanità» si legge nei necrologi affissi per le strade a lutto del piccolo borgo pugliese di Cisternino in cui Lisetta Carmi aveva fondato un ashram in nome del santone Babaji e dove si era ritirata a vivere nella contemplazione e nella preghiera. Quel luogo senza tempo resterà intriso della spiritualità di un’anima semplice, mentre il corpo terreno della Carmi lo ha lasciato definitivamente all’età di 98 anni. Nel tempo veloce che siamo condannati a vivere, stupisce l’attenzione mediatica riservata al ricordo di un’artista che aveva abbandonato la pratica fotografica agli inizi degli anni ottanta. Pur tuttavia la si può comprendere se si guarda alla riemersione dei suoi lavori degli anni sessanta e settanta avvenuta nell’ultimo decennio attraverso un gran numero di retrospettive, mostre, pubblicazioni che hanno confermato una certa sua centralità nella storia della fotografia italiana.

Operazioni, queste, tese a celebrare quel tempo in cui lei – come pochi altri e altre in Italia – provava a “dare voce agli ultimi” con i suoi racconti visivi. I suoi scatti provocarono in molti casi un’azione destabilizzante che si fa – per i contemporanei – utile testimonianza del momento storico in cui si affermava, nel panorama culturale italiano, una cultura del realismo visivo differente dai modelli storici della fotografia europea e americana, in molti casi attraversata da un’urgenza socio-antropologica che orientava lo sguardo e gli obiettivi verso sud.

Così è stato per Lisetta Carmi. Nata a Genova in una famiglia borghese di origine ebraica, costretta a lasciare la scuola durante il periodo delle leggi razziali, dopo aver svolto attività di pianista professionista, negli anni sessanta scoprì la fotografia. Nel mezzo fotografico riconobbe da subito uno strumento di impegno politico e un mezzo attraverso cui compiere un intimo percorso di ricerca esistenziale. Lavorò come fotografa fino al 1984, producendo un vastissimo archivio ad oggi in gran parte conservato presso Cisternino. E proprio il suo primo viaggio in Puglia, accanto all’amico etnomusicologo Leo Levi che la condusse alla scoperta dei canti di una comunità ebraica garganica, la avvicinò all’obiettivo fotografico. Tornata a Genova, dopo l’esperienza di fotografa di scena presso il teatro Duse, scelse la strada dell’impegno firmando reportage di documentazione e denuncia sociale come quello sui lavoratori del porto di Genova.

La Carmi impressionò sulla pellicola fotografica la realtà di quel mondo di invisibili, imparando a conoscere dall’interno il dramma della condizione operaia. Quel lavoro può essere considerato oggi l’atto concreto di una attivista che non smise mai, negli anni della lotta di classe, di schierarsi dalla parte dei più deboli. Così fece con i dossier dedicati ai lavoratori dei cantieri e delle acciaierie dell’Italsider, ai bambini ammalati dell’ospedale Gaslini, ai parti prematuri al Galliera, all’umanità che frequentava l’ufficio anagrafe di Genova, alle vittime delle pastoie urbanistiche delle fogne cittadine. La Carmi si muoveva cercando di dare un senso pratico al suo operato e concependo il fatto fotografico come un atto personale di denuncia.

Se negli anni del suo impegno il fotogiornalismo aveva scoperto la strada della denuncia sociale cavalcando le battaglie condotte a più livelli dalla società civile, lei preferiva raccontare la dimensione più intima e oscura del disagio esistenziale utilizzando la fotografia come strumento di compartecipazione empatica verso gli esseri umani e le loro storie. È quello che è accaduto quando ha scelto di fotografare in Sardegna le vicende della famiglia Piras conosciute per aver letto i racconti di Maria Giacobbe pubblicati in Diario di una mestrina. Il coinvolgimento umano nel racconto visivo della povertà di contadini e pastori sardi di Orgosolo, il paese che aveva ispirato nel 1961 il film di Vittorio De Seta Banditi ad Orgosolo, è tangibile in quelle fotografie che raccontano paesaggi abitati da uomini, donne e bambini attraverso uno sguardo sorprendentemente lucido per i tempi.

La Carmi, allontanandosi da ogni visione folclorica, gramscianamente rivelava le cause dell’arretratezza da cui le classi povere non riuscivano a svincolarsi. Considerate troppo “anticonvenzionali” le sue fotografie, pur capaci di raccontare lucidamente delle storie, approdavano sulla carta stampata con difficoltà. Ne dà testimonianza la vicenda legata alla pubblicazione di un gruppo di fotografie, realizzate nel 1966 e raccolte con il titolo Erotismo e autoritarismo a Staglieno, in cui fotografando il cimitero monumentale di quel quartiere genovese riuscì a raccontare la storia di una società conformista e sessualmente repressa. Gli scatti vennero pubblicati da “Bolaffi Arte” dopo vari tentativi con altre case editrici. Ma se in Italia la Carmi dovette bussare a diverse porte, all’estero quelle fotografie vennero apprezzate moltissimo. Questo lavoro ha aperto la strada al racconto di altre storie nate da numerosi viaggi e dai tanti incontri figli dell’inquietudine di quegli anni sessanta: fotografò Israele, l’America Latina, la metropolitana di Parigi, Amsterdam durante il movimento di protesta Provo, uno dei segnali che ha preceduto il ‘68, poi l’Afghanistan e l’India.

L’occhio della documentarista si è calato nelle realtà più nascoste per svelare ciò che in quegli anni ancora non si poteva raccontare. Dalla frequentazione assidua di un gruppo di travestiti di Genova è nata la serie fotografica probabilmente più nota della Carmi. Gli scatti del 1965 sono stati il frutto della familiarità della fotografa con quel gruppo di individui che la accoglieva in casa propria, la invita alle feste, rivelava di sé le parti più intime e segrete fidandosi del tutto della donna prima che dell’artista. La stessa Carmi ha raccontato di essere entrata nell’ambiente dei travestiti per caso, grazie al suo amico Mauro Gasperini. Dopo sei anni e vari tentativi falliti di pubblicazione, questo racconto, supportato dal lavoro scientifico dello psicanalista Elvio Facchinelli, si è tradotto nel famoso volume I travestiti grazie all’impegno di Sergio Donnabella che decise di pubblicarlo a proprie spese. Nonostante il clima libertario che si respirava in quei primi anni settanta, il libro fece scandalo, a tal punto che le librerie si rifiutarono di esporlo. Il volume, che veniva venduto quasi clandestinamente, oggi è diventato un pezzo di storia della fotografia italiana.

La sua uscita ebbe un grande impatto sociale, aprendo la strada ad un dibattito in cui la sincerità visiva delle scandalose fotografie divenne il pretesto per discutere di temi nuovi: il racconto delle diversità e di più fluide identità di genere, la funzione apologetica e propagandistica della fotografia, il confine tra impegno politico e pratica artistica. Le tremila copie de I travestiti circolarono pochissimo. La tipografia Nava che, fatta eccezione per poche centinaia di copie, aveva ancora i magazzini pieni avrebbe mandato tutto al macero se non fosse intervenuta la scrittrice Barbara Alberti a mettere in salvo tutta la tiratura accogliendola in casa propria. Oggi il volume nel mercato dell’arte ha raggiunto una quotazione di alcune migliaia di euro, mostrando una progressiva attenzione dei collezionisti verso un oggetto di culto che viene oramai annoverato tra i pochi importanti libri fotografici italiani. È per questo che la Carmi, negli ultimi tempi, è considerata una icona della controcultura italiana e viene riscoperta attraverso l’investimento di diversi curatori e la disponibilità di istituti pubblici e privati a ridare vita al suo lavoro di ricerca così unico e distante da quello dei fotoreporter a lei contemporanei.

Tra le serie fotografiche più richieste ed esposte vi è senza dubbio quella del 1966, che testimonia il suo incontro con Ezra Pound, il grande e contestato poeta americano che si era esiliato a Zoagli presso Rapallo dopo 13 anni di internamento in un manicomio criminale. La fotografa anticonformista riuscì a restituire «la solitudine, la disperazione, lo sguardo perso nell’infinito» dell’autore dei Canti Pisani. Oggi potremmo pensare che L’ombra di un poeta (titolo della pubblicazione del 2005 in cui sono raccolti i sedici scatti a Ezra Pound che le valsero il Premio Niepce nel 1976) sia stata una carezza compassionevole sulla vicenda del poeta e che abbia simbolicamente anticipato il patto di riconciliazione proposto due anni dopo a Pound da Pier Paolo Pasolini, in una storica intervista per la Rai Tv. Con pochi altri ritratti di artisti – tra cui quello pensoso e straziante di Carmelo Bene – questa serie si rivela una ulteriore toccante sfumatura della poliedrica esistenza dell’artista che sapeva guardare oltre la superficie del reale superando consolidate convinzioni ideologiche e le più radicate convenzioni sociali.

Riferimenti bibliografici
G. Calvenzi, Le cinque vite di Lisetta Carmi, Mondadori, Milano 2013.
L. Carmi, I travestiti, Essedi ed., Roma  1972.
L. Casero, a cura di, Fotografia e femminismo nell’Italia degli anni Settanta. Rispecchiamento, indagine critica e testimonianza, Postmedia books, Milano 2021.
G. Chiti, a cura di, Oltre i limiti della visione: il percorso fotografico di Lisetta Carmi, Quaderni di AFT, Prato 2005.
B. Martini, a cura di, Lisetta Carmi. La bellezza della verità, Postcart edizioni, Roma 2018.
A. B. Saponari, Dai fotoreportage al turismo religioso. La presenza anticonformista di Lisetta Carmi nell’industria culturale italiana in “Smarginature”, “Arabeschi”, n. 18, 2021.

Lisetta Carmi, Genova 1924 – Cisternino 2022.

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