C’è una parete ruvida, granulosa. Cemento grezzo, intento a manifestare la propria imponente presenza senza l’ingentilimento della finitura. Una donna vestita di rosso vi si staglia a contrasto visivo, sonoro, perfino emozionale: il suo corpo e le sue dita scivolano sulle mura del palco, in una postura e in un movimento visibilmente sensibili alla matericità dello spazio che incontrano, che di cupo hanno il confronto con un confine. Un altro confine cattura lo sguardo, quasi arginando un buco nero in cui lasciarsi risucchiare, poiché al di là della cornice a fondo palco tutto sembra poter accadere, sebbene potrebbe darsi anche l’esatto opposto. Tutto potrebbe essere già accaduto.
Sono le prime immagini di Frame, ultimo spettacolo di Alessandro Serra, costruito a partire dalle suggestioni del mondo pittorico di Edward Hopper. Ritrarre la stasi, la solitudine, l’accaduto, attraverso una visione della realtà che guarda non ai grandi simboli dell’America d’inizio Novecento ma ai paesaggi anonimi di un caffè o di una veranda sull’oceano, attraverso una volontà di restituzione dell’essenza umana a partire da un tratteggio precisissimo e però quasi invisibile, tanto vicino alla fotografia da poter esser definito illusionista: se questo si è detto a lungo del grande esponente del realismo americano, similmente lo si può associare al lavoro del regista romano – premiato all’ultimo Ubu per il suo Macbettu – visto di recente al Teatro Vascello e ora in procinto di partire per una tournée oltralpe. Lungi dall’essere soltanto una traduzione intermediale dell’opera di Hopper, si tratta piuttosto di un affondo all’interno del suo universo immaginifico e tecnico, da cui fuoriesce un distillato di immagini potentissime in grado di riconsegnare quell’«esperienza interiore» che secondo Serra è la qualità prima del lavoro del pittore americano.
La tensione dei paesaggi pittorici (i riferimenti, pur non esplicitati, rimandano almeno a The Nighthawks, 1942 e The Morning Sun, 1952) si invera sul palco in una stratificazione drammaturgica all’interno della quale il livello luministico non è affatto secondario o di servizio. Verrebbe da dire, anzi, che la raffinatezza del disegno luci – anche questo curato, assieme a regia, scene e costumi, da Serra –, assume il ruolo di personaggio a sé stante: la presenza e l’assenza della luce definiscono stati d’animo, determinano azioni e ne scandiscono il ritmo. A contrasto con l’immobilismo del cemento che adorna i confini del palco sono alcune pareti semoventi, su cui il cambio d’ombra è anch’esso gioco d’illusione e non virtuosismo (come forse quello della mano che da un capo all’altro del palco si allunga ad aprire una porta). Nel mentre, i suoni vibrano, stridono e rimbombano in questa dimensione scenica abitata, come afferma il regista, da «figure sempre ai margini di una soglia».
All’interno di questi confini millimetrici si trovano i performer: Francesco Cortese, Riccardo Lanzarone, Maria Rosaria Ponzetta, Emanuela Pisicchio e Giuseppe Semeraro abitano così entità effimere, e mutando la luce muta anche il loro segno. C’è chi si abbandona a un dondolarsi ipnotico e chi invece parte; i loro gesti quotidiani possono trasfigurarsi e diventare un intenso spasmo; messi all’angolo, strisciando a terra, ritornando in piedi, manifestando la loro essenza melancolica. Possono apparire quattro corpi discinti e ripiegati l’uno sull’altro su di un tavolo, ingurgitati dalla passione, mentre qualcun altro, senza accorgersene, continua lentamente a bere un caffè. Privato delle parole, il senso di isolamento si rende evidente anche e soprattutto nelle scene di gruppo, là dove i corpi rimangono al più connessi da un legame flebile, forse incarnando un ricordo ormai sbiadito.
A controcanto si rilevano alcuni quadri che sembrano percorrere una diversa prospettiva di indagine, più leggera ma forse non così ben equilibrata al resto: in questo compendio di figure ordinarie, le fugaci apparizioni di una suora sembrano eccessive nelle posture, estremizzate, non naturalistiche ma nemmeno tanto astratte da farsi portatrici di un segno metaforico. Sicuramente meno discordante appare il quadro in cui si rievoca la visione di una proiezione cinematografica, che assume i connotati di uno attraversamento dello schermo (il riquadro a fondo palco) per cui i fantasmi d’ombra recuperano la scena, improvvisamente ingigantiti. Su tutti però aleggia la figura di un dinoccolato arlecchino, che, a cavallo tra dentro e fuori, sembra essere colui che muove i fili dell’azione piuttosto che parte della schiera dei personaggi. Non fosse altro che, come spiega lo stesso Serra, proprio in questo caso il soggetto ha origine dall’ultima produzione hopperiana, The Two Comedians (1965) nella quale sono ritratti il pittore e la moglie vestiti da Arlecchino e Colombina ripresi in un inchino frontale. Serra definisce l’arlecchino scenico, reso da Giuseppe Semeraro, «una figura che si mette di lato ma che vigila come un angelo custode», una presenza evanescente e però mai scomparsa del tutto, come quella di qualcuno la cui unica traccia è soltanto un paio di calzature abbandonate.
Lo spettacolo, nella produzione dei Cantieri Teatrali Koreja assieme a Teatropersona, pur basandosi su un’indagine innanzitutto sensoriale, si propone dunque di inquadrare qualcosa che non c’è. Qualcosa al di là di quel che si vede, al di là di quella cornice attorno cui gravita lo sguardo. La pittura di Hopper era una tensione all’essenziale, una riduzione dell’America a visioni quasi del tutto immobili mentre già il mondo prospettava cambiamenti economici, industriali e culturali epocali; nell’opera di Alessandro Serra ogni aspetto inquadra una volontà di lettura introspettiva e, al contempo, estremamente legata alla superficie delle cose: come nell’ultima visione, quadro forse necessariamente in sordina, lo spettatore rimane a guardare la cornice nera che inghiotte la luce di una barchetta di carta.