“Why are you leaving?” chiede la piccola Enola (Tina Majorino) a Mariner (Kevin Kostner) che ha già lo sguardo che scruta l’oceano, nell’ultima scena di Waterworld (Reynolds, 1995), il film che racconta la storia di un pianeta terra quasi completamente sommerso dalle acque. “Because I belong out there” le risponde il mutante. È questo il punto di Oceano. Filosofia del pianeta, di Simone Regazzoni; il nostro posto è là fuori, nelle acque dell’oceano. In effetti perché, nonostante la parte asciutta della terra si estenda per meno di un terzo dell’intera superficie del pianeta e noi stessi siamo fatti essenzialmente d’acqua (più della metà della nostra massa corporea è H2O), continuiamo a pensarci come entità terrestri, cioè animali con i piedi ben piantati sul terreno? Perché non pensarci piuttosto come pesci nostalgici che portano il mare al loro interno? Perché, ci dice Regazzoni, l’acqua rappresenta ciò che Homo sapiens, cioè il vivente dei concetti e delle classificazioni, non può pensare.
Viene da chiedersi se il linguaggio non sia stato inventato proprio per provare ad esorcizzare l’impensabilità dell’oceano, la sua assenza di confini e barriere, il suo inarrestabile movimento, la sua indifferenza per la proprietà privata e la solidità: «Se il pianeta Terra è l’illusione di un pianeta nostro – a misura d’uomo e del suo potere territoriale – il pianeta Oceano è il pianeta-flusso inappropriabile aperto alla coabitazione cosmica dei viventi tutti. Come scriveva il giurista romano Ulpiano mare quod natura omnibus patet, “il mare per sua natura è aperto a tutti”, vale a dire non è suscettibile di appropriazione» (Regazzoni 2022, p. 19).
Oceano, allora, non è un luogo e tantomeno un oggetto, è semmai la matrice impensabile di ogni pensiero e di ogni discorso. In effetti la prima filosofia è acquatica: come sostiene Talete di Mileto «l’acqua è il principio di tutto» (Giannantoni 1999, p. 80). Ma che cosa vuol dire, propriamente, che al principio c’è l’acqua, e non, come invece sostiene la nostra tradizione teologica, «In principio erat Verbum» (Giovanni, 1,1)? Se all’inizio c’è il verbo, cioè il linguaggio e il ragionamento, allora al principio c’è qualcosa o qualcuno in grado di articolare pensieri, cioè di fare distinzioni e attribuire nomi a ciò che è stato pensato come distinto. Vuol dire, in sostanza, che al principio c’era un essere umano, anche se travestito da Dio. Se al principio invece c’è l’acqua, allora non c’era nessuna parola e nessun ragionamento. C’era solo acqua. E l’acqua dell’oceano è continua, scorre incessantemente, e soprattutto tiene insieme tutto il pianeta. Se già sulla superficie terrestre i confini fra gli stati risultano incongrui e artificiali, nel mare diventano del tutto ridicoli. Se già dire la “mia” terra suona presuntuoso e puerile, dire la “mia acqua” è del tutto insensato.
Una svolta oceanica, è questa che propone Regazzoni, un pensiero non del mare – come se appunto fosse solo un nuovo oggetto di pensiero come tanti altri – bensì in modo oceanico, vasto, esteso, potente. Un pensiero congiuntivo, ché il mare, cioè l’acqua, raggiunge e unisce ogni luogo: «Non si tratta semplicemente di pensare Oceano dopo aver privilegiato lo studio della terraferma, ma di ripensare radicalmente il rapporto Terra-Oceano e la costituzione stessa del mondo» (Regazzoni 2022, p. 18). Un pensiero della vita, quindi, umido, poroso, salmastro. È infatti un pensiero che corrode ogni distinzione troppo rigida, ogni linea di confine, ogni localismo. Per questa ragione si tratta di un pensiero che «è cielo e mare insieme» (ivi, p. 20), perché il mare già annuncia il cielo che non è altro che l’oceano dell’aria e poi dello spazio. Un pensiero che sovrasta ogni distinzione, o meglio ancora, ogni tentativo di distinguere e separare. Per questa stessa ragione la svolta oceanica è una svolta minacciosa, perché a nessuno piace che i piedi non siano saldi sul terreno, perché il pensiero terreno ha bisogno di certezze, di confini e punti fermi. È un’avventura pericolosa quella del pensiero oceanico:
Oceano imperscrutabile e smisurato, ignoto, «acqua disumana», come lo definisce […] Bachelard, che minaccia la fine del mondo, è assolutamente prossimo, intimo alla mia carne, alla mia vita, stranamente familiare: è un’intima esteriorità, come quei luoghi sconosciuti che ci si presentano in sogno e in cui abbiamo la sensazione di essere già stati. Oceano mi riguarda da vicino, mi tocca, e ogni passo in direzione di Oceano, ogni pensiero proteso incontro a Oceano è sempre un ritorno a Oceano, un’odissea nello spazio acquoreo. Il senso di minaccia ed estraneità disumana, di fine del mondo, che Oceano comunica non è in contrasto con questa strana sensazione di intimità carnale, ma fa corpo con essa. Oceano è altro ed estraneo proprio perché comunica una prossimità troppo intensa, troppo vicina, insostenibile: quella di un’origine smisurata più vecchia del mondo come Terra, che non si lascia concepire e definire, ma mi abbraccia, avvolge, travolge (ivi, p. 27).
Oceano è allo stesso tempo una «intimità carnale», perché io sono della stessa sostanza umida del mare, ma anche una «intima estraneità», perché il mare non cessa di essere lontano, impensabile, pericoloso. A nessuno piace scoprire di essere soltanto una momentanea manifestazione di qualcosa di antichissimo, di originario, qualcosa che infatti proviene dalle stelle (Schultz 2018). In questo senso la svolta oceanica che ci propone Regazzoni è prima di tutto un gesto di umiltà, un passo indietro, come quando di fronte ad un’onda alta che si abbatte fragorosa sul bagnasciuga ci ritraiamo spaventati. Un gesto, in realtà, che non fa che rimandare l’appuntamento con il mare. Perché non si smette mai di essere sulla riva del mare: «Non si sta davanti a Oceano, ma immersi in esso: nel suo colore, nel suo movimento, nel suo profumo, nella sua carne» (Regazzoni 2022, p. 82). Non si smette mai, quindi, di essere sul punto di essere sommersi dal mare, dal rischio di morire, di smettere d’essere un’entità che si pensa unica e autonoma: «Pensare con Okeanós significa abbandonare i limiti del semplice vitalismo che non riesce a concepire la morte, che riduce la morte a una mera trasformazione della vita. Oceano che è vita, potenza vitale, è al contempo morte, potenza mortale che divora e inghiotte» (ivi, p. 89).
La potenza produttiva del mare, allora, è la potenza di un pensiero capace di pensare la propria contingenza senza però essere schiacciati da questo stesso pensiero. Un pensiero che, come il surfista a cui Regazzoni dedica un capitolo, non viene travolto solo perché si muove con l’onda, l’asseconda e se ne lascia trasportare. Un pensiero senza presunzione, chi può pensare di essere più forte e tenace del mare, che rinuncia alla posizione arrogante dell’io, alla separatezza dell’io rispetto al mondo. Non è un caso che siano pochi i filosofi che abbiano saputo pensare il mare e la sua fluidità: la filosofia cerca il fondamento, il principio, ciò che è stabile, cerca il secco a schiva l’umido. Serve invece un nuovo pensiero liquido e inconsistente, senza però essere superficiale e vacuo. Perché il mare invece è profondo, esattamente com’è profondo il cielo. È necessaria allora una nuova figura, quella di «un filosofo-pesce, un filosofo-balena o meglio un filosofo-pesce-balena» (ivi, p. 131), cioè un filosofo che non è un pesce, perché è una balena, quindi un mammifero, ma nemmeno un cetaceo, perché essendo un pesce ha le branchie. L’oceano è il luogo di questa contraddizione, perché nel mare che tutto porta via può starci anche una contraddizione, il mare non se ne cura.
In questo consiste, infine, la svolta oceanica, che dove c’è oceano non può più esserci “io”, e tantomeno antropocene. Se l’antropocene è terrestre e terreno la svolta oceanica, infatti, ci proietta già al di là dell’antropocene. Certo, oggi l’oceano è pieno di plastica, ma non per questo smette di essere mare e potenza e vita. Sì, anche di vita, inaspettata e sorprendente, e tuttavia, come si sta scoprendo, c’è vita anche nella plastica, una vita di plastica, ma comunque una vita. Oceano è questa potenza: «Nel pianeta Oceano non ci sono cose identiche a sé, ma solo differenze di forza oceanica, vale a dire differenti intensità di flusso di una natura-fiume in continua trasformazione» (ivi, p. 144).
Riferimenti bibliografici
G. Giannantoni, a cura di, I presocratici. Testimonianze e frammenti, Laterza, Roma-Bari 1999, p. 80.
R. Terik Daly, P. Schultz, The delivery of water by impacts from planetary accretion to present, in “Science Advances”, 2018.
Simone Regazzoni, Oceano. Filosofia del pianeta, Ponte alle Grazie, Milano 2022.