Le immagini si assiepano al sentire al punto da diventare una seconda pelle che avvolge e interroga le viscere dello spettatore attento: quello che sa porsi in ascolto. Se c’è un’energia che corre indiscussa nelle pieghe di Nuovo Olimpo, questa risuona nei sigilli dell’Amore, materia cosmica che feconda e dilania la vita dei personaggi in un vincolo strettissimo con la memoria e il cinema. Il regista Ferzan Özpetek, che nella sua nutrita filmografia ha fatto di Amore un mosaico radiografico enucleandone con cura i movimenti e le forme, decide qui di adunare Eros e Mnemosine in una danza visiva e musicale di grande eleganza poetica. Le due figure comunicano e si compenetrano continuamente nelle falde di questo racconto amoroso che ha per oggetto un incontro, quello tra Enea (Damiano Gavino), giovane aspirante regista, e Pietro (Andrea di Luigi), studente di medicina dalle fisionomie olimpiche.
A dire il vero, però, ad occupare una posizione di primo piano rispetto al senso generale dell’opera non è tanto l’evento condiviso da questi due jeunes amants e il loro essersi imbattuti una notte nell’intrecciarsi convulso di sguardi assorti, quanto l’intensa fugacità dei pochi giorni vissuti assieme. La genesi di questo loro conoscersi è tutta racchiusa nell’aleatorietà di uno sguardo che senza chiedere si deposita al fondo dei corpi, scavando dimore nei nervi, solchi nel cuore come dardi e ferite al momento dell’abbandono. Il film comincia con una scena che sembra essere stata espunta da uno dei primi film di Almodóvar: due donne vestite in abiti anni ’70 si incontrano per scambiarsi informazioni su quello che a tutti gli effetti appare un affare losco. Un abbaglio di fari di auto le fa separare; la donna con il bambino si dirige verso la macchina, tira fuori una pistola dalla borsa e apre il fuoco contro due malviventi. “Brava!”: parte un applauso e la cinepresa inquadra il giovane Enea che comunica ad una radiolina di sgomberare il traffico perché la scena si è conclusa; quindi, con fare spavaldo, allontana il pubblico curioso che nel frattempo si era ammassato dietro ad una transenna. È qui, nell’attimo in cui il tempo sembra frangersi nella sua propria sospensione, che i suoi occhi si intersecano con quelli di Pietro, silenzioso osservatore di quel set cinematografico.
Tornando alle figure evocate poc’anzi, notiamo come da questo incipit in poi, Eros – configurato come desiderio per la carne e forza irrazionale – entri nell’orbita delle esistenze dei due ragazzi come un insinuante virus che non cessa di pungolare gli organi interni, mutando i ritmi abituali di un corpo e trasformandone all’improvviso la stessa vita quotidiana. Nel corso dell’opera osserviamo Eros agitarsi nel regno del cinema, non tanto in quello dell’arte dei film, quanto nel luogo in cui esso riluce(va): la sala. Attraverso questo espediente il regista turco accende un faro sul passato – e indirettamente sul presente – dipingendo la sala come il luogo dello scambio erotico par excellence, lo spazio in cui ci si incontrava per toccarsi, per odorarsi, per amarsi di sfuggita. Oggi che la sala sta cadendo sempre più nella dimenticanza e i registi (Özpetek stesso) scelgono le piattaforme per promuovere i loro film, viene da chiedersi quale sarà il destino della fruizione cinematografica, che fu, non solo ma anche, corporea. Difatti, è in uno dei corridoi del cinema “Nuovo Olimpo” che Enea cerca il sesso. Conduce Pietro nei bagni ma lui non vuole, è frenato. In lui, leggiamo l’effetto di un urto dei sensi che di colpo lo pietrifica in un incendio emotivo, tramutandolo così in un uomo coartato, in un corpo muto da cui promanano solo esigue parole: “Qui no, non ce la faccio qui”. In tal senso viene in mente Roland Barthes che in un suo celebre scritto, concepì il colpo di fulmine come “un’ipnosi”, ritraendo l’atto dell’innamoramento come il terreno di un’elettrizzazione e galvanizzazione per un’immagine che ben presto conduce l’innamorato ad una folgorazione.
Tutta la prima parte dell’opera è infatti iscritta nel segno della narcosi erotica: i due protagonisti appaiono caduti vittime di Eros, deprivati d’ogni logica e curiosi di entrare l’uno nell’altro. Una fastosa casa abbandonata diventa il nido della loro frequentazione, consumata in una temporalità che appare estatica rispetto alle abitudini del quotidiano. A tal proposito, occupa un preminente angolo di interesse nella generale economia del film il racconto della nascita di questo amore. Enea e Pietro parlano poco. E quando il linguaggio desiste dal suo primario compito comunicativo è perché sono i corpi ad esprimersi da sé. Lo spazio concesso nell’ordine della durata al silenzio dello scrutarsi reciproco fa della pelle, degli arti e delle membra dei veri e propri dispositivi relazionali che scansano la parola a favore del contatto fisico. “Sento il tuo odore, mi mancava” sussurra Enea all’orecchio del suo amato mentre guardano la Magnani de Nella città l’inferno (Castellani, 1959). L’idillio crolla ben presto però. Roma è tiranneggiata da bollori popolari e in città infuriano scontri con la polizia. Il pranzo che i due innamorati avrebbero dovuto trascorrere in trattoria non ci sarà mai. Durante una manifestazione antifascista Pietro viene coinvolto in un incidente stradale che gli impedisce di raggiungere Enea che invece, nel frattempo, è riuscito a scappare.
Passano dieci anni. Il tempo ha modificato le vite di entrambi. Enea gira il suo primo film e Pietro è un medico affermato. I due si sono persi di vista ma in entrambi alberga Mnemosine come immarcescibile forza del ricordo. L’opera prima di Enea è un successo e tra il pubblico ci sono anche Pietro e sua moglie Giulia che vedono il film. Lui, attonito, riconosce il suo passato amoroso in una scena e uscito dalla sala rimane così turbato da insospettire Giulia che intuisce nel marito una nostalgia inusuale. La memoria dell’amore passa anzitutto attraverso il personaggio di Titti (Luisa Ranieri), ex gestrice del cinema e spettatrice della loro passata relazione, la quale un giorno, incontrando per caso Enea, gli confessa di aver conservato una lettera scritta da Pietro molti anni prima in cui lo invitava a rivedersi. L’intrecciarsi delle soglie temporali permette ad Özpetek di trattare il ricordo come un varco affettivo, in cui il passato d’un amore “castrato” ritorna nel presente della vita dei due.
Tale perennità dell’amore emerge lampante in un evento che concerne i personaggi nella parte finale dell’opera. Durante le riprese del suo quattordicesimo film, Enea si ferisce agli occhi rischiando di rimanere cieco. La gravità di tale infortunio richiede un intervento che viene fortuitamente affidato a Pietro. La situazione è paradossale: i due si incontrano senza potersi vedere vicendevolmente. Ad ogni modo, Enea bendato riconosce nel medico una voce e un sentore familiare tanto da chiedergli di incontrarlo per sdebitarsi. È qui che l’architettura sentimentale congegnata dal regista trova la sua acmè: in una cena a casa dell’oramai sposato Pietro, Enea riconosce l’amore della sua gioventù. Non si può correre pensando di restaurare i propri passi. Il tempo – si dice – divora tutto: anche i qualora, i se fosse stato, i potrebbe. In questo finale dolceamaro, i due amanti non possono che rifugiarsi in una malinconia incolmabile e gridare “pensami ancora, ogni tanto” con un cuore vecchio in un corpo nuovo.
Riferimenti bibliografici
R. Barthes, Frammenti di un discorso amoroso, Einaudi, Torino 2014.
Nuovo Olimpo. Regia: Ferzan Özpetek; sceneggiatura: Ferzan Özpetek, Gianni Romoli; montaggio: Pietro Morana; interpreti: Damiano Gavino, Andrea Di Luigi, Luisa Ranieri, Greta Scarano, Aurora Giovinazzo, Alvise Rigo, Giancarlo Commare; produzione: R&C Produzioni, Faros Film; distribuzione: Netflix; origine: Italia; durata: 112′; anno: 2023.