Uno still life delle colline argentine mostra il passaggio dei giorni davanti ad una natura indifferente, in sottofondo sentiamo il suono di un tango mentre i sottotitoli ci informano brevemente in merito al contesto in cui ci troviamo: con lo scoppio della pandemia una cantante si rifugia nel Nord del paese quando l’esibizione musicale per cui si stava preparando viene cancellata. North Terminal si occupa di mettere in scena le performance impossibili che il lockdown ha rinviato indefinitamente e che solo ora, attraverso la messa in scena, possono trovare un pubblico. Il più recente documentario di Lucrecia Martel, distribuito dalla piattaforma Mubi, è un contributo ad una questione che ha visto impegnati molti cineasti negli ultimi tre anni, ovvero l’emergere di una domanda drammaturgica urgente che è stata chiaramente formulata da Daniele Dottorini nei seguenti termini: «Cosa filmare? E come?» (2020, p. 157). Nel caso di Martel, la risposta si articola nella messa in scena di esibizioni artistiche interdette tradotta in un ribaltamento della dialettica tra spazi interni ed esterni che ha caratterizzato finora la maggior parte delle immagini della pandemia: in questo caso è lo spazio esterno a diventare l’unico palcoscenico possibile.

Per raccontare la propria esperienza di isolamento, lo sguardo di cineasti di tutto il mondo ha spesso registrato in prima persona l’oppressione dello spazio interno, concepito come una chiusa dimensione domestica a cui era impossibile sfuggire, mentre lo spazio esterno appariva abbandonato e svuotato, nonché inospitale rispetto all’esistenza umana. Gli strumenti digitali utilizzati nella mediazione tra interno ed esterno, come le videochiamate e le dirette in streaming, sono diventati in questi racconti simboli di un distanziamento forzato dal quale non sembrava ci fossero vie alternative.

Altre forme di racconto, come ci dimostra il documentario di Martel, sono possibili e necessarie. Durante la quarantena la regista si sposta con la sua compagna di vita, la musicista Julieta Laso, nella regione di Salta, ed è qui dove entrano in contatto con un gruppo di musiciste e attiviste politiche. Questo territorio, profondamente conservatore e religioso, è stato sempre al centro del cinema della regista, interessata alla critica della decadenza borghese nella provincia argentina. Con la pandemia questa visione negativa sembra trasformarsi: la distanza rispetto alle grandi città e il contatto ravvicinato con la natura favoriscono un ripensamento delle possibilità offerte dal luogo. È nell’inazione imposta dal confinamento che appare l’occasione di un nuovo percorso collettivo, lontano della società tradizionale, in cui lo spazio è in grado di accogliere un progetto utopico. Per quattro giorni la regista mette in scena alcune performance del gruppo di donne con mezzi minimali ma cercando di valorizzare ogni artista; tutte le musiciste vengono presentate all’inizio del film con una sorta di ripresa “segnaletica”, in cui voltano il viso dalla posizione frontale al profilo.

Se Martel sembra scomparire dietro uno sguardo incuriosito che segue con la macchina da presa i movimenti degli altri membri del gruppo, il filo rosso che lega tutte le performance è la presenza di Julieta Laso, vera protagonista del film, a volte partecipe a volte muta, in primo piano o sullo sfondo, fuori fuoco ma sempre in ascolto, proiettata verso gli altri. Le performance sono interpolate da viaggi notturni in auto, camera car stranianti che mettono in tensione lo spazio protetto della casa con lo spazio pubblico interdetto.

Il ripensamento del territorio, l’incontro con altri corpi che gli danno vita ogni giorno in maniere sovversive, porta a un’inedita apertura dello spazio. Non a caso le interazioni tra i membri del gruppo sono riprese sempre in esterni; le donne si riuniscono intorno ad un falò mentre suonano e ballano alla luce della luna o si confondono tra la vegetazione della foresta. Questo passaggio è particolarmente indicativo se messo a confronto con altri film di Martel, a partire della sua opera d’esordio, La ciénaga (2001), in cui viene data molta importanza alla rappresentazione degli ambienti interni.

Una spiegazione può essere cercata nella valenza politica del tipo di legami raccontati: il cinema di Martel si è sempre occupato di legami familiari che sono imposti dall’esterno, e che infine esplodono per rivelare l’insostenibilità delle istituzioni che essi rappresentano. In North Terminal, al contrario, il forzato confinamento porta la regista a rifugiarsi in relazioni interpersonali significative, che sfidano i codici culturali sulla sessualità, sulla razza e sulla classe sociale, disegnando un’immagine di comunità ideale.

Ciò che viene fuori, in ultima analisi, non è un diario filmato dell’artista durante la pandemia, né un documentario musicale, ma piuttosto la piccola idea di un film ancora da fare, che si interrompe quando smette di credere alla possibilità di avere uno sviluppo. Eppure in questo mediometraggio abbozzato si fa strada un’inedita concezione dello spazio, radicalmente diversa da quella che ha dominato il racconto della pandemia e nuova anche per il cinema della regista argentina.

Riferimenti bibliografici
D. Dottorini, L’immagine chiusa. Per un cinema della pandemia, in R. De Gaetano, A. Maiello, a cura di, Virale. Il presente al tempo dell’epidemia, Pellegrini Editore, Cosenza 2020 (ebook).

North Terminal. Regia: Lucrecia Martel; sceneggiatura: Lucrecia Martel; montaggio: Iair Michel Attías; interpreti: Julieta Laso, Mariana Carrizo, Noelia Sinkunas, Lorena Carpanchay, Bubu Rios, B Yami, Maka Fuentes, Mar Perez; produzione: Contar, Rei Cine; distribuzione: MUBI; origine: Argentina; durata: 37′; anno: 2021.

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