di ANTONIO CAPOCASALE
Essi bruciano ancora di Felice D’Agostino e Arturo Lavorato.
La Storia, per progredire, ha bisogno (anche) che si producano storie. Una comunità che voglia avere una Storia duratura, dovrà cioè costruire narrazioni, ideologie, miti, attraverso i quali veicolare sistemi di valori, pratiche e identità culturali la cui condivisione ratifichi la coesione della comunità stessa. Ma come la Storia, anche le storie vengono scritte dai vincitori. Forse non però una volta per tutte, né per tutti, se i vinti, “bruciando ancora”, avrebbero da dire una loro versione.
Ecco che Essi bruciano ancora di Felice D’Agostino e Arturo Lavorato, presentato in questi giorni al Torino Film Festival, si misura con una presa di parola dalla parte dei vinti dell’Unità d’Italia e della sua storia successiva: non gli Asburgo o i Borbone, ma la popolazione meridionale, marginalizzata e sottomessa con violenza da un processo di unificazione attuatosi come annessione al Regno Sabaudo.
Il titolo del film riprende una comunicazione inviata dal colonnello Negri al generale Cialdini per informarlo del massacro compiuto dal Regio Esercito contro la popolazione civile del Beneventano, per vendicare in modo esemplare l’assassinio di soldati sabaudi ad opera di briganti. Nell’alludere in maniera indiretta a un episodio sanguinoso, il film restituisce una lunga storia di eccidi e miseria come prezzo pagato dal Sud d’Italia visto dal Regno Sabaudo come terra da annettere. La conseguenza di una tale politica, che nel film è letta come colonizzazione, ha fatto sì che nei colonizzati ancora bruciassero malcontento e contrapposizione violenta tra il centro dello Stato e ciò che storicamente è stato reso sua periferia.
La complessa struttura del film, che accosta in un montaggio intermediale immagini riprese ex novo dai due autori, materiali di repertorio, immagini fisse, scritte in sovrimpressione, si pone già, nella sua eterogeneità, come attraversamento, lacerazione, rimessa in discussione della Storia. Alle immagini a macchina fissa di pescatori e popolane silenti ripresi frontalmente, nella Calabria contemporanea, si sovrappone l’audio di decreti dell’esercito unitario, ma detti da un megafono: è come se la ricostruzione storica di un allora si attuasse coi segni della realtà quale è ora, come se il passato riverberasse sul presente. Ma se del passato mancano i segni, le immagini, eccoli restituiti da inquadrature riferibili alla contemporaneità, che mostrando i vinti nell’oggi dicono dei vinti di ieri, taciuti e messi in ombra da una Storia che attestava solo “sorti magnifiche e progressive” e solo di quelle ha prodotto immagini e narrazioni.
All’effetto straubiano di scene così costruite se ne alternano altre in toni brechtiano-didattici: in un teatro (con tanto di palco e sipario visibili) si rappresentano gli scontri tra esercito sabaudo, nobili e clero da una parte e masse popolari dall’altra. La lettura di diari e testimonianze storiche tra tetri edifici in cemento armato e mattoni a vista, tanto ricorrenti nel paesaggio meridionale, caratterizzati dalla stessa incompiutezza del progresso storico e processo unitario, i filmati di repertorio riguardanti le riforme agrarie del secondo dopoguerra (e le sue promesse disattese), i moti di Reggio Calabria, fanno via via affiorare l’aspetto drammatico di una non-Unità.
Trovano in tal modo spazio le immagini mancanti della Storia, i fuori campo dei resoconti ufficiali, attraverso una pratica simile a quella che Dario Cecchi ha individuato come una delle più distintive di certa recente produzione documentaria e sperimentale: la restituzione di una realtà storica di cui mancano documenti è effettuata per mezzo di immagini che si offrono evidentemente come costruzione finzionale (gli intermezzi nel teatro, volutamente naif), seppure a partire da verità e flagranza di volti e voci del popolo. Laddove esistono documenti, cioè materiali di repertorio integrati nel film, essi sono recuperati, rivissuti, rielaborati nel presente, di cui si fanno segno.
Frammenti eterogenei entrano dunque in relazione tra loro a restituire il quadro di una colonizzazione ancora in atto, dominio subìto anche da chi è oggi il Sud dell’Occidente: gli immigrati di colore nel paesaggio meridionale, l’accenno ai fatti di Rosarno del 2010 accostati alla strage del feudo di Fragalà a Melissa nel 1949, fulminee immagini di Malcolm X, testi di Frantz Fanon e Thomas Sankara contro campagne e marine calabresi, configurano così un’Internazionale delle periferie della Storia. Ciò traspare anche negli inserti musicali: canti popolari o di protesta dialogano con gli interventi di un chitarrista blues, appunto la musica di dominati e colonizzati, e il brano Sometimes I Feel Like a Motherless Child (canto di orfani, come di esuli o migranti), spiritual non a caso già utilizzato da Pasolini per il suo Vangelo meridionale, qui riproposto in una versione più solenne, corale.
Nel film prende corpo una coralità di minoranze, di chi cioè è stato reso minore e periferico da un Potere maggiore e centrale che dettava la Storia. Di fatto, la Storia ufficiale dei maggiori viene al montaggio minorata, nel senso che Deleuze e Guattari attribuivano a tale operazione nel loro testo sulla letteratura minore, che non è solo quella scritta in una lingua minore, ma anche il particolare uso di una lingua maggiore da parte di una minoranza, capace di travagliare dall’interno la lingua ufficiale di Stato, di Potere. Il montaggio fa dunque un uso minore di immagini maggiori: smonta e decontestualizza il filmato d’archivio in quanto icona della Storia ufficiale dei maggiori, e lo ricolloca in una struttura che è enunciazione dei minori, tra volti e voci del popolo.
Se l’archivio, inteso secondo la definizione di Foucault, è “legge di ciò che può essere detto, il sistema che governa l’apparizione degli enunciati come avvenimenti singoli” (Foucault 1971, p. 73), nel film le immagini d’archivio sono qualcosa di diverso da quanto prescritto dalla legge, enunciano una storia altra dell’avvenimento, resa da un punto di vista minoritario. Ancora riprendendo Deleuze, nel film “si fa dunque in modo che un enunciato attraversi tutte le variabili che possono intaccarlo nel più breve spazio di tempo. L’enunciato, allora, non sarà altro che la somma delle sue proprie variazioni, che lo fanno sfuggire ad ogni apparato di potere capace di fissarlo” (Deleuze 2002, p. 98).
La cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato (il film di Florestano Vancini sulla repressione di Bronte si inserisce, tra altri frammenti, come un glitch improvviso) è qui in definitiva smontare, in un nuovo montaggio, lo story-telling dei maggiori, il loro monopolio della storia.
La versione monolitica dei vincitori colonizzatori è così percorsa dall’eterogeneità di altre versioni dei fatti, problematizzata ed esposta a una verifica incerta della Storia che non è passata né risolta, ma appunto brucia ancora. L’ultimo brechtiano inscenamento, infatti – questa volta però non più in un teatro ma nell’esterno di una piazza – vede proprio una barricata: i colonizzati intendono assumere un ruolo, si fanno appunto attori di un’opposizione oltranzista a quella Storia che li voleva fissati nella parte degli stranieri.
Riferimenti bibliografici
D. Cecchi, Immagini mancanti. Estetica del documentario nell’epoca dell’intermedialità, Pellegrini, Cosenza 2017.
G. Deleuze, Un manifesto di meno, in C. Bene, G. Deleuze, Sovrapposizioni, Quodlibet, Macerata 2002.
Id., F. Guattari, Kafka. Per una letteratura minore, Quodlibet, Macerata 2010.
M. Foucault, L’archeologia del sapere, Rizzoli, Milano 1971.