Scrivere per me è disegnare, unire le linee in modo che diventino scrittura, o disunirle in modo che la scrittura diventi disegno […].
Faccio la relazione di una disintossicazione, di una ferita al rallentatore.

Jean Cocteau

Dalla clinica di Saint-Cloud tra il 1928 e il 1929, Jean Cocteau, mentre si disintossica dall’oppio, rivolge al mondo i disegni e gli appunti di Oppio procedendo a mettre sa nuit en plein lumière (come amava ripetere). La fluidità ipnotica, l’allentamento sensoriale, l’intensità sensuale dilatata, che sono propri dei sogni d’oppio, e delle forme, colori, disegni che si amplificano, appaiono come il passo figurale che il cineasta hongonkiano Yonfan adotta in No.7 Cherry Lane, una lunga rêverie (e la “chiave” dell’oppio sappiamo che apre la porta dei “sogni”, come in ogni fumeria cinese). Un film allucinatorio dove l’animazione da un lato diventa incessante metamorfosi e dall’altro prende corpo, volume, flessuosità, inscrivendosi nel “sogno della Storia”.

Lo stile del disegno e le atmosfere si riferiscono a una temperie europea, sia letteraria che cinematografica, in cui la cultura francese (dal decadentismo all’avanguardia, dal flusso liquido del cinema francese del tardo impressionismo, come quello del Marcel Carné di Juliette ou La clef des songes, all’aura mitica di una “ninfa moderna” come Simone Signoret, dal mondo onirico proustiano allo stesso Cocteau di La Belle et la Bête) si accompagna all’intensità allucinatoria del romanticismo (la citazione di Cime tempestose della Brontë). Ma il riferimento grafico viene dall’animazione sovietica di Lev Atamanov (punto di riferimento del mondo grafico di Miyazaki), autore di un grande cartoon come La Regina delle nevi (1957). Eppure la storia è ambienta nella Hong Kong della seconda metà degli anni sessanta, quando cambiano gli stili di vita e a Hong Kong arrivano i fuoriusciti dalla Taiwan anticomunista del Terrore Bianco.

Come la signora Yu, misteriosa ed elegante (quasi una Madame de Guermantes, e perdipiù con un passato rivoluzionario) che accoglie in casa lo studente universitario Ziming, efebico e muscoloso insieme, e con cui intrattiene un rapporto di erotismo tutto mentale e, proprio per questo, palpitante dentro i piccoli gesti, i toccamenti, le posture, le estenuanti e languide effusioni a distanza. Sembra di rivedere Jean Marais e Maria Casares nell’Orfeo cocteauniano. E certo il riferimento all’orfismo di Cocteau, al suo “tirare fuori dalle tasche” i propri sogni, percorre il film, insieme a tutto il procedimento di “spostamento” e “condensazione” del sogno freudiano, al fondere gli estremi proibiti.

Prende piede e si espande così la disperata bellezza e il desolato splendore di rapporti interdetti, di circolazione di sguardi, di autoerotismi e di sottili perversioni, di vizio e virtù, di bellezza e ferinità. Ma l’aura mitologica che avvolge il film (una mitologia legata alla “caverna dei sogni” che è la sala cinematografica) pervade i luoghi asiatici, disegnati con delle linee volutamente sinuose e sovrapponendo, come in un sogno, est e ovest, Europa e Asia (una Hong Kong che assomiglia a Lisbona, in cui la luce, le ombre, i movimenti sono come immersi in un “altro tempo” tutto rallentato).

Si tratta di una “cineseria” tutta pervasa di esotismo occidentale, estenuata nelle visioni oppiacee e inquietanti di personaggi che sembrano usciti da un film di Von Sternberg (la truccatissima e prosperosa cantante lirica, che in realtà è un travestito, il segaligno e sinistro suo segretario, con i suoi lunghi artigli e la pelle incartapecorita vengono direttamente dai Misteri di Shangai). Gli archetipi di divinità e ninfali apparizioni, di esseri elementali e di reincarnazioni eroiche,  che emergono dall’inconscio della rêverie sono trasfusi in luoghi mentali che guardano ad Occidente (Parigi, New York). Come scrive James Campbell: «In questo stesso momento, l’ultima incarnazione di Edipo, i moderni protagonisti della favola della Bella e la Bestia, attendono all’angolo della Quarantaduesima Strada con la Quinta Avenue che il semaforo cambi colore» (Campbell 1958, p. 12), e certo il titolo inglese del film, con quel Cherry Lane, rimanda al mitico indirizzo dello storico teatro d’avanguardia a Greenwich Village.

Le atmosfere si divaricano tra un passato mitizzato e un futuro trasognato e si incrociano attrazioni sottili e turbamenti: il triangolo amoroso che si compone e scompone con Meriling, la figlia bellissima della signora Yu (truccata come la Anna Karina musa della Nouvelle Vague). I tempi e gli erotismi allucinatori si mescolano, i sogni e le fantasie si incastrano tra loro, gli interni si fanno sempre più morbosamente intrisi di palpiti carnali e gli esterni irrompono, con le manifestazioni maoiste e gli studenti che innalzano il libretto rosso, con gli avvenimenti e i rivolgimenti della Hong Kong del 1967.

Rivoluzione sessuale, spinte anticonformiste, fantasie cinematografiche. Da Cocteau si arriva a quello che forse è il vero riferimento “amoroso” di Yonfan, Bernardo Bertolucci. Tutti i personaggi sono dei Dreamers, il ritmo stagionale e dolce è quello di Io ballo da sola (1996), l’Oriente sognato, la Cina e la Città Proibita, le allucinazioni e le visioni che rasentano apparizioni ipnagogiche e mistiche (i serpenti che avvolgono eroticamente i corpi distesi nella foresta) fanno pensare naturalmente a L’ultimo imperatore (1987) e al Piccolo Buddha (1993). Melò, storia, politica, utopia, erotismo di giovani corpi, fantasie inconsce: tutto rimanda a un Bertolucci riletto dall’altra parte, da quella Cina a sua volta sognata dal regista italiano (che non a caso adorava e citava Cocteau).

Appare allora centrale il lungo capitolo in cui ci si immerge, con la coppia di innamorati, nel buio della sala cinematografica a vivere i sogni di eroi ed eroine filmici, al confine con il tramonto del cinema classico-moderno e l’inizio di quello moderno-postmoderno. E questo confine tra reale e sognato, tra vecchio mondo autunnale e primavera di cambiamento, si trasfonde e si immerge in quella sala cinematografica nel lungo omaggio a Simone Signoret. Il mitico “casque d’or”, la seducente prostituta di La ronde (1950) di Ophüls (altro riferimento stilistico che accomuna Yonfan e Bertolucci), torna sullo schermo disegnato e raddoppiato nelle storie di amori impossibili trasposti nella grafia precisa che si riferisce a tre film, di quelli che “fanno sognare” gli innamorati: La strada dei quartieri alti (1959) di Jack Clayton, Gli amori celebri (1961) di Michel Boisrond e La nave dei folli (1965) di Stanley Kramer.

Proseguendo nel suo percorso tra romance e rêverieYonfan aggiunge quindi una perla alla collana dei suoi voyages nella memoria del cinema e della storia, nei suoi incastri sognanti (come già nei precedenti A Certain Romance del 1984, Prince of Tears del 2009, e soprattutto Peony Pavilion del 2001, il film tratto da Il padiglione delle peonie, capolavoro della letteratura cinese tutto incastonato in un “sogno dentro un sogno”).

C’è un palpito nel film che può forse dirsi barthesiano, il Barthes dell’Impero dei segni, di Frammenti di un discorso amoroso, di Mythologies. Scrive infatti Roland Barthes che: «Le mythe est une parole définie par son intention. Il vient me chercher pour m’obliger à reconnaitre le corps d’intentions qui l’a motivé, disposé là, comme le signal d’une histoire individuelle, comme une confidence» (Barthes 1970, p. 210). Yonfan appunto ci sussurra i suoi miti, ci accarezza con le linee disegnate, come una lunga, languida, confidenza, intimamente sparsa sulla nostra pelle di spettatori. E quelle forme ci procurano un brivido, un brivido di piacere, risvegliandoci dall’incubo della Storia. È il piacere del cinema.

Riferimenti bibilografici
J. Campbell, L’eroe dai mille volti, Feltrinelli, Milano 1958.
J. Cocteau, Oppio, SE, Milano 2006.
R. Barthes, Mythologies, Seuil, Paris 1970.

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