Si esce dall’infanzia senza sapere che cosa sia la giovinezza,
ci si sposa senza sapere che cosa sia l’essere sposati,
e anche quando si entra nella vecchiaia non si sa dove si va:
i vecchi sono bambini innocenti della loro vecchiaia.
Milan Kundera

Nevia ha 17 anni, vive con la nonna Nanà e la sorella più piccola, Enza. Poi c’è “’a zia” Lucia, vicina di “casa” nel campo-container di Ponticelli in cui abitano, una prostituta e un’amica della nonna, all’occorrenza collega, quando le due anziane signore decidono di riscendere in campo, o meglio per strada, nel tentativo di risolvere i loschi affari di famiglia. E infine c’è la mamma morta, nella foto con i cerini sempre accesi sul comò della camera da letto di Nevia, Nanà e tutte le altre.

Nell’universo femminile di Nevia, opera prima di Nunzia De Stefano, gli uomini sono o dietro le sbarre, come il padre di Nevia con cui la ragazza non vuole avere niente a che fare, o in belle case comprate a suon di scarpe rubate in cui Nevia, per niente al mondo, vuole abitare: “È piccerella ancora, non ci pensa a ‘ste cose” si preoccupa Nanà di rassicurare il padre di Salvatore, giovane galeotto promesso sposo della ragazza ribelle. Ma più cresce e più Nenia, dallo sporco in cui abita (lei raccoglie spazzatura nel quartiere), si ostina a guardare il mondo con occhi puliti e riesce così a ritrovare una famiglia proprio in chi è senza casa: i nomadi del circo Orfei che le offrono un lavoro (accudire gli animali), una sedia a tavola e un posto nel mondo, anche se quello edulcorato dei numeri di prestigio, tra trapezisti, cavalli con criniere da pettinare e rinoceronti a cui lavare i denti.

Nell’universo femminile degradato da cui proviene, Nevia è ritratta da uno sguardo altrettanto femminile che ne delinea i tratti acerbi con sentita vicinanza (c’è qualcosa di biografico nella storia di Nevia/Nunzia) e la giusta distanza garantita dalla trasfigurazione favolistica di matrice zavattiniana (in cui si scorge l’eco dell’universo garroniano, produttore del film). In un’atmosfera onirica in cui, non a caso, si dorme tanto e ci si risveglia altrettanto, le figure femminili assumono infatti contorni fiabeschi: la prostituta nera che sembra “un alieno”, la zia eccentrica con la testa imbrattata di maschera o di mollette per i panni, la nonna che stende pennellate di trucco sulle rughe mentre l’amica si impaietta le cosce abbondanti. 

Nevia è un’opera uguale a tante altre nel panorama italiano contemporaneo, per il racconto del percorso di formazione di un personaggio femminile adolescente – come lo è Gelsomina ne Le meraviglie (2014) di Rorhwacher, Fiore (2016) nell’omonimo film di Giovannesi, Agnese in Cuori puri (2017) di De Paolis, Maria ne Il Vizio della speranza (2018) di De Angelis, solo per citare alcuni esempi recenti –, e tuttavia è un film diverso da tutti gli altri, innanzitutto perché l’adolescente qui è senza madri né padri.

In particolare, per il racconto di formazione intriso di napoletanità, il film si ricollega ad altri due: Il cratere (2017) e Indivisibili (2016) ma, anche qui, se nel film di Luzi e Bellino il percorso della protagonista Sharon, di fatto figlia unica nel legame esclusivo col padre, era ostacolato da quest’ultimo, in quello di De Angelis le due sorelle Fontana, essendo siamesi, per staccarsi dai genitori, dovevano anche, letteralmente, separarsi da se stesse. In Nevia invece tutto si gioca su un piano orizzontale, è nel rapporto Nevia-Enza che emerge la possibilità del riscatto: nonostante la differenza di età e un prevedibile lato protettivo della maggiore sulla minore, è Nevia a farsi complice delle monellerie della più piccola (quando rubano l’iguana nel circo) ed è Enza a rubare i soldi a Salvatore, passando sopra il suo corpo inerme quando Nevia, per difendersi, lo stende a terra.

C’è, nel rapporto tra sorelle, uno scambio. E in quello scambio sta la forza, del film e della possibilità di felicità che questo racconta: nello sguardo simmetrico tra due sorelle, senza padri, senza madri, né loro sostituti (come ritroviamo in altri film dello stesso filone, nel ruolo di preti, insegnanti, psicanalisti, ecc.). Gli unici due personaggi adulti “buoni” del film, ‘a zia e il proprietario del circo non sono capaci di assolvere neanche a questo ruolo, segnati la prima da una condizione di solitudine (una bruttezza dell’anima che le ha impedito di costruirsi una famiglia sua), il secondo di infermità (quando Nevia scopre che è malato, l’uomo la allontana).

Non cadendo in trappole melodrammatiche e piuttosto cedendo a momenti comici che alleggeriscono la narrazione, l’andamento del film è quello che muove gli inizi di un romanzo di formazione (si vuole abbandonare il mondo a cui si appartiene per crescere), la forma simbolica anche della contemporaneità (come, per Moretti, lo è stata della modernità) perché, nel passaggio dall’infanzia alla vita adulta, racconta l’adolescenza, l’età che racchiude in sé il senso della vita, e di un mondo che cerca un suo senso nel futuro anziché nel passato.

E tra la forma (romanzesca) del film e il suo personaggio (di Nevia) c’è un rapporto che si tiene ben in equilibrio: è un film che simula il senso di soffocamento di Nevia (le inquadrature molto strette, gli ambienti chiassosi e claustrofobici come il mercato o la discoteca) e i suoi tentativi di fuoriuscita (la corsa sul carrello, o le spinte sull’altalena). E poi c’è lo sguardo, quello femminile della regista, che non indaga i corpi ma scruta insistentemente i volti, avvicinandosi in primi piani, sdoppiando le immagini riflesse allo specchio delle donne che si truccano, guardandole di lato, ponendosi accanto alla sua protagonista, sin dalla prima scena, quella nel camion quando Nevia ha in braccio Enza e, anche di lato, la tristezza degli occhi di Nevia penetra lo schermo: “Mi hai mai chiesto come sto? Quanto mi manca mamma?” rimprovera a Nanà quando prova, maldestramente, a fare la nonna.

Questa Nevia che, nel suono ha qualcosa di lugubre della nenia (l’antico canto funebre femminile) ma già rivela la sua forza nella scelta del nome proprio come titolo (abbastanza inusuale nel panorama italiano) è dunque il ritratto, forte, di un tenace personaggio femminile (sorretto dalla prova d’attrice di Virginia Apicella) capace di trovare nello sporco della città che abita il pulito delle relazioni, negli animali che accudisce l’umanità che manca, nell’infanzia (della sorella) la sua maturità, nella morte (della mamma) la vita, nella forza la fragilità. E viceversa. E così è il film, come il suo personaggio, forte e fragile, nello stesso tempo, debole nella sua aderenza, eccessiva, all’immaginario favolistico del circo, e nella rigidità con cui ritrae personaggi maschili senza spessore. 

“Qual è la differenza tra una puttana e una donna non innamorata?” chiede Nevia: “Nessuna piccirè, nella vita contano solo i denari”. Né la profonda sfiducia che abita la zia, né il cinismo scettico della nonna che, nella notte, taglia a Nevia un ciuffo di capelli non come rito di iniziazione ma per un dispetto egoista (lei non ce l’ha fatta e impedire alla nipote di fare di testa sua rende più sopportabile il peso del suo fallimento), possono aiutare Nevia: “Come mi posso salvare?” chiede Nevia ai grandi, ma i grandi del suo piccolo mondo non riescono ad illuminare il suo percorso.

Come la regista con il suo personaggio, così anche il personaggio la sua salvezza ce l’ha accanto. È nella sorellanza la salvezza, e il primo piano di Nevia su cui si chiude il film, il volto truccato (per il numero del circo) con quelle due lacrime nere sotto gli occhi che quasi riporta allo sguardo in macchina della Cabiria felliniana, è uno sguardo che, al contrario di quello, insiste, liberandosi in un sorriso, come la risata della sorella piccola si era liberata nel gioco sull’altalena.

È guardando il mondo alla stessa altezza, come nella scena in cui la più piccola è sul carrello della spazzatura mentre la più grande la spinge avanti, che, per Nevia ed Enza, la vita si lascia guardare davanti, lasciando dietro le colpe (dei padri), e rivelando che c’è sempre una possibilità di fare qualcosa di diverso con ciò che l’Altro ha fatto di noi.

Riferimenti bibliografici
F. Moretti, Il romanzo di formazione, Einaudi, Torino 1999.
N. Tucci, Il ritorno del figlio. Gli eredi nel cinema italiano contemporaneo, in AA.VV., Fata Morgana. Quadrimestrale di cinema e visioni, n. 35, Infanzia, Pellegrini, Cosenza 2018.

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