Basta osservare un gatto, e si capisce che c’è una differenza radicale. Pensiamo ad uno di quei gatti di casa supernutriti e castrati, il cui ventre appesantito quasi sfiora il pavimento. Il gatto è obeso, ma il gatto non se ne preoccupa, perché il gatto non si guarda né si prende cura di sé. Il gatto non sa di essere un gatto. Il gatto è solo il gatto che è, questo vuol dire essere un animale (non umano). In una condizione simile anche l’essere umano più trasandato si rende conto di essere molto, troppo grasso, e sa che dovrebbe mettersi a dieta (poi la dieta non la comincia, ma comunque sa che dovrebbe farla). Ma questo significa che questo vivente si osserva, e osservarsi dall’esterno vuol dire che l’umano non coincide con il proprio corpo.

In effetti già parlare del “proprio” corpo presuppone una distanza fra il corpo e chi quel corpo in qualche modo lo ha. Senza scomodare Descartes e la sua spesso fraintesa distinzione fra res cogitans e res extensa, quello fra il corpo e il “soggetto” che lo abita e lo controlla, è un dualismo. Come scrive Paolo Virno in Avere. Sulla natura dell’animale loquace, «la mancata coincidenza dell’Homo sapiens con la sua natura» (Virno 2020, p. 11) è la caratteristica distintiva degli esseri umani: «Filo conduttore di ogni indagine sulla natura umana è il dualismo preliminare e persistente da cui è segnato l’Io che ha sé stesso» (ivi, p. 131). L’Io non è se stesso, così come il gatto è immediatamente il gatto che è, l’Io ha se stesso, come ha un corpo, dei pensieri, delle speranze, delle paure: c’è allora un «dualismo originario» (ivi, p. 132), questo dualismo è la natura umana.

Si parla a buon diritto di dualismo. E il dualismo, si sa, è la bestia nera dei filosofi giudiziosi. Vorrei tentare di difenderlo nel solo modo accettabile: mostrandone l’inevitabilità. Riformulo dunque, avvalendomi ora di una bestia nera quanto mai mansueta, la tesi appena enunciata. Tutte le forme di dualismo, non importa se auliche o dissimulate, sono rese possibili – e forse necessarie – dalla relazione estrinseca che l’animale umano intrattiene con le facoltà e le prerogative dalle quali è permeato (ivi, p. 153).

È umano quel vivente che non si limita ad essere quel che è, come succede al gatto obeso, bensì non fa che ridefinire il rapporto con la propria stessa natura biologica, con il proprio corpo e ciò che lo rende umano. In questo senso essere umani significa non coincidere mai con la propria natura. Qual è il fondamento di questo dualismo? La risposta di Virno (che in questo libro prosegue e rende ancora più esplicite le conseguenze di quanto aveva impostato in Quando il verbo si fa carne: linguaggio e natura umana del 2003 e Saggio sulla negazione: per una antropologia linguistica del 2013) è diretta: nella facoltà del linguaggio. Si pensi all’enunciato più semplice, “c’è un gatto sul tappeto”. Già questo semplice atto presuppone qualcuno che lo enuncia, e quindi qualcuno diverso dal gatto e dal tappeto: «Il rapporto dei significati linguistici con la realtà è basato sulla non-identità, quindi su un duraturo distacco» (ivi, p. 30). Questo qualcuno prende atto dello stato del mondo davanti ai suoi occhi, e decide di trasporlo in parole. Si può parlare del mondo solo perché non si coincide con il mondo:

È il linguaggio verbale a imporci una relazione estrinseca con la nostra vita, il mondo che abitiamo, gli affetti da cui siamo colonizzati. Estrinseca, tale cioè da escludere la piena convergenza dei termini congiunti, è la relazione imbastita dal verbo “avere”. La capacità di parlare fa sì che l’animale umano abbia (e non sia) un corpo, un catalogo più o meno vasto di esperienze, l’una o l’altra inclinazione sentimentale. L’uso dei segni linguistici genera quel distacco dall’ambiente circostante nel quale si radica l’avere, ossia il possesso di qualcosa con cui mai si collima e mai ci si immedesima. Il distacco in questione è istituito, e confermato senza posa, dallo scarto tra senso e denotazione che caratterizza ogni locuzione (ivi, p. 28).

Se il linguaggio allontana dal mondo, il verbo “avere” è una sorta di condensato del linguaggio, appunto perché avere qualcosa è possibile solo se non si coincide con quel qualcosa che si ha. Si ha solo ciò che non si è. E infatti il corpo è “nostro”, al punto che possiamo donarne un organo o toglierci la vita. Si pensi, con un esempio d’attualità, alla continua rappresentazione di sé di una figura come Chiara Ferragni, la cui vita è indistinguibile dalla rappresentazione della propria vita. Qui il dualismo fra vita e raddoppiamento mediatico della vita è diventato un modo di stare al mondo. Il gatto, invece, non si rappresenta e non si suicida, proprio perché il corpo non è del gatto, il gatto è la stessa cosa del suo corpo. Ecco perché «il dualismo poggia sull’avere» (ivi, p. 154).

A determinare la relazione con la nostra essenza (cioè con il nostro corredo biologico), è una componente particolare di questa stessa essenza (o corredo biologico). Si tratta, per la precisione, della componente che, generando la categoria dell’avere, fa sì che l’animale umano non coincida mai del tutto con la propria natura. […] Il singolo elemento della nostra essenza […] che ci obbliga a instaurare una connessione estrinseca con la totalità di tale essenza […] è il linguaggio verbale (ivi, p. 42).

Qual è la socialità specie-specifica del vivente dell’avere e non dell’essere? Virno dedica pagine molto belle all’amicizia, una condizione in cui ci si trova perché l’animale umano è sempre eccentrico rispetto a sé stesso, e quindi sempre bisognoso di ricentrarsi attraverso l’altro. Un altro, però, che non è l’altro della famiglia, quello consanguineo e naturale. L’amico, invece, è l’altro che per un periodo della nostra vita “scegliamo” e da cui siamo scelti, un altro con cui siamo estrinsecamente intimi, e intimamente estranei:

Affinché possa imbattersi in un héteros autós, in un altro se stesso, è necessario che l’animale umano sia già da sempre héteros, altro o diverso, rispetto a sé stesso. È necessario, cioè, che l’animale umano non si identifichi appieno con le sue prerogative salienti e le sue molteplici esperienze. In breve, è necessario che questo animale abbia, e non sia, un corpo bisognoso di cure, l’attitudine a proferire discorsi, un catalogo di desideri strepitanti e di monotoni terrori (ivi, pp. 57-58).

In definitiva, l’umano per Virno è il vivente dell’avere, e non dell’essere, cioè della felina coincidenza con sé. L’umano è sempre fuori di sé, si ha e non è – infatti «l’uso di sé si fonda sul distacco da sé» (ivi, p. 14). Tuttavia c’è un aspetto della vita umana che in questa descrizione dualistica della natura umana rimane fuori. Si tratta dell’arte, o più in generale dell’esperienza estetica. Infatti, che tipo di esperienza è un’esperienza estetica? Pensiamo ad un’esperienza che si può fare anche in tempi come questi. Si vede un film alla tv. Non succede spesso, ma succede che ad un certo punto ci dimentichiamo di stare vedendo un film, e cadiamo nella storia che stiamo vedendo. Questa non è più una esperienza che abbiamo, noi siamo parte di quella esperienza. Siamo quell’esperienza. Che duri pochi o tanto non fa differenza, evidentemente, il cinema funziona perché questo succede o può succedere. Oppure, siamo in un prato, ci sono degli alberi e c’è vento, siamo sdraiati sulla schiena a fissare il cielo. Siamo lì, vediamo le nuvole che corrono veloci, il fischio impersonale del vento, siamo solo noi e il cielo. Ad un certo punto c’è solo il cielo, o meglio, noi ci siamo ancora, ma come assorbiti dal cielo e dal vento. Questa non è una esperienza che abbiamo, siamo quell’esperienza, siamo vento e cielo.

Che cos’è allora un’esperienza di questo tipo? Un’esperienza che propriamente non è più un’esperienza (il concetto di esperienza è intrinsecamente dualistico, un soggetto che fa appunto esperienza di qualcosa), è la condizione del collasso del dualismo. L’Io coincide con il corpo. È il divenire-gatto dell’umano, è l’Io che è non è più separabile dalla sua esistenza. Essere invece che avere. Una situazione del genere Gilles Deleuze, un filosofo che il kantiano Virno non cita, la definisce «immanenza assoluta». L’aggettivo vuol appunto sottolineare che si tratta di una condizione dove la distinzione fra immanenza e trascendenza non è più operativa. Per Virno, invece, queste due nozioni si implicano a vicenda ma non possono essere superate: «Nel primate superiore che ha la propria essenza, le nozioni magniloquenti di trascendenza e immanenza, lungi dal contrapporsi, si coalizzano e mettono radici l’una nell’altra» (ivi, p. 183). Deleuze sarebbe stato d’accordo, ma poi sarebbe andato oltre, mentre per Virno dobbiamo fermarci qui. Eppure l’arte sta lì, da sempre, a additarci una vita oltre il dualismo. Una vita che diventa arte, un’arte che diventa vita. Essere o avere, oppure essere e avere. La filosofia è una questione di congiunzioni.

P. Virno, Avere. Sulla natura dell’animale loquace, Bollati Boringhieri, Torino 2020.

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