Dalla sua pubblicazione nel 1940, Paura (Native Son in originale) ha incessantemente suscitato appassionati dibattiti culturali facendo del suo autore, Richard Wright, il capostipite del genere del romanzo di protesta e rendendolo un intellettuale costantemente in bilico tra il centro e il margine del canone letterario americano e afro-americano. Native Son (2019), la recente trasposizione cinematografica HBO con la regia dell’artista concettuale post-black Rashid Johnson, propone un dialogo meta e intertestuale tra il romanzo di Wright e la produzione culturale afro-americana successiva che da questo è stata influenzata, sia come fonte di ispirazione che come bersaglio critico da cui differenziarsi. Istantaneo best-seller e primo romanzo di uno scrittore afro-americano ad essere selezionato dal prestigioso e bianchissimo Book-of-the-Month Club, Paura segue Bigger Thomas per le strade del deprivato South Side di Chicago nella sua spirale da semplice ragazzo di strada a omicida, prima involontario, della figlia della famiglia Dalton, bianchi liberal per i quali lavora come autista, poi consapevole, della sua ragazza.
Influenzato dal pensiero marxista e dal determinismo della letteratura naturalista, Wright voleva mostrare all’America ancora segregata e razzista degli anni quaranta che il contesto sociale deprivato in cui Bigger si muoveva e la costante discriminazione che doveva affrontare non potevano che farne un assassino. Questo assunto determinista, l’apparente svalutazione della cultura afro-americana, le scene di esplicita violenza e la caratterizzazione delle donne nere come passive di fronte alla violenza maschile hanno costituito la base di veri e propri attacchi critici contro Wright, anche dall’interno della stessa cultura afro-americana.
La trasposizione di Johnson fa dell’infedeltà al testo di Wright la sua ragion d’essere. La stessa struttura narrativa tripartita del romanzo viene mantenuta ma profondamente alterata. I titoli delle tre parti del romanzo vengono invertiti nell’ordine nella versione cinematografica. “Destino”, il titolo della terza parte del romanzo, compare come titolo della prima parte del film a sottolineare che il destino di Bigger è già scritto, riaffermando la forza della visione deterministica di Wright. Dalla terza parte viene tagliata tutta la lunga sequenza del processo e la scioccante presa di coscienza di Bigger: «Non volevo uccidere! […] Ma quelle cose per cui ho ucciso, quelle cose sono io stesso» (Wright 1988, p. 423).
Contrariamente al romanzo, Bigger non è alienato dal suo contesto culturale, ma legge e si nutre di cultura afro-americana. Lo stesso attore che lo interpreta, Ashton Sanders, è stato uno dei protagonisti del film afro-americano più importante degli ultimi anni, Moonlight (Jenkins, 2016), simbolo di un nuovo cinema politico nero. Inoltre, Bigger non desidera sessualmente Mary Dalton, e non uccide la sua fidanzata Bessie, riuscendo a controllarsi e fermandosi in tempo. In questo modo il regista e la sua sceneggiatrice Suzan-Lori Parks rimettono Paura e il suo autore al centro della cultura afro-americana, dichiarando legittime le critiche al romanzo sollevate in ottant’anni di storia, ma, allo stesso tempo, mostrando che queste non inficiano il messaggio profondo dell’opera di Wright. Trasferendo l’azione dagli anni trenta ai giorni nostri, Native Son ribadisce con forza l’attualità della visione pessimista di Wright delle relazioni razziali negli Stati Uniti, accentuata anche dal fatto che nel film Bigger, disarmato, viene ucciso dalla polizia senza un processo (per quanto formale) come nel romanzo.
Il film di Johnson è la terza trasposizione cinematografica di Paura. Fin dalla sequenza iniziale è chiaro che l’atteggiamento del regista e della sceneggiatrice è radicalmente differente da quella fedeltà reverenziale al testo originale che caratterizza le due precedenti versioni, rispettivamente di Pierre Chenal (1951, sceneggiata e interpretata dallo stesso Wright) e di Jerrold Freeman (1986). “Non ho bisogno di una sveglia”, sono le prime parole di Bigger nel film, già in piedi e vestito. Il romanzo di Wright, al contrario, inizia proprio con il suono di una sveglia mentre Bigger è ancora a letto. Il prolungato e fastidioso «Drrrrriiiiinnnnn!» (Wright 1988, p. 11) che apre il romanzo segna l’irruzione del tempo cronometrato tipico di una catena di montaggio all’interno della vita del giovane Bigger. Il suono diventa quindi simbolo dello sfruttamento capitalista delle masse, di subalternità e alienazione.
La sequenza iniziale del film di Johnson continua, invece, con la macchina da presa che esplora la camera di Bigger trovando sul letto una copia del romanzo Uomo Invisibile (1952) di Ralph Ellison, altro testo fondativo della letteratura afro-americana moderna, su cui il protagonista appoggia una pistola che, veniamo a sapere in seguito, era appartenuta al padre (figura mai menzionata nel romanzo). Insieme con James Baldwin, Ralph Ellison fu inizialmente discepolo di Wright ma progressivamente se ne allontanò, trovando che i suoi personaggi e il genere del romanzo di protesta incoraggiassero, più che correggere, i dannosi stereotipi dei bianchi nei confronti degli afro-americani. Il fatto che Bigger legga Ellison collega la produzione culturale afro-americana successiva al romanzo di Wright, riaffermato come padre letterario sulla cui idea di letteratura come protesta dobbiamo continuamente confrontarci.
Native Son ci mostra Bigger immerso nella cultura afro-americana sia cinematografica che letteraria. Significativamente, la scena del romanzo in cui Bigger e i suoi amici si masturbano al cinema eccitati dal cinegiornale che mostra un gruppo di ragazze bianche, tra cui la figlia dei Dalton, e dall’immaginario esotico del film Trader Horn (W. S. Van Dyke, 1931), è radicalmente modificata nel film. Native Son ci mostra infatti Bigger e i suoi amici intenti a guardare Sweet Sweetback’s Badassssss Song (Melvin Van Peebles, 1971), il primo film del genere blaxploitation, in cui il protagonista, inseguito dalla polizia bianca e corrotta, esce vittorioso e non sconfitto. Mentre il romanzo di Wright sottolinea come Hollywood controlli il desiderio degli afro-americani confermando il loro ruolo subalterno e lo stereotipo a cui sono relegati dall’immaginario collettivo, l’adattamento di Johnson mette in evidenza il potere del cinema di realizzare il sogno di emancipazione, anche se questo non sarà il destino di Bigger, ucciso dallo Stato nel 2019 come nel 1940.
Nel film Bigger legge lo stesso romanzo di Wright con una vertiginosa mise-en-abyme, insieme ad altri testi fondamentali, presenti e passati, della cultura afroamericana. Significativamente, la macchina da presa ci mostra Bigger circondato da questi libri nella sua camera nella residenza dei ricchi datori di lavoro bianchi di cui ha appena ucciso involontariamente la figlia. Con un carrello che arriva fino alla finestra, vediamo Bigger in giardino con due investigatori incaricati del caso Dalton. L’inquadratura è formalmente e contenutisticamente paradossale in quanto, con soluzione di continuità, ci mostra Bigger contemporaneamente in due posti diversi. In realtà, Johnson rende in questo modo il concetto di “doppia coscienza” elaborato dal sociologo e critico culturale nero W.E.B. Du Bois nel suo trattato Le anime del popolo nero (1903), il cui passo saliente viene citato proprio in una delle scene successive del film. La sequenza rappresenta la doppia immagine che Bigger ha di sé a causa della sua consapevolezza di essere costantemente guardato e giudicato anche dai bianchi. Uno sguardo discriminatorio questo che Bigger è costretto ad interiorizzare e che produce appunto una doppia immagine di sé stesso: una prima più fluida e intellettuale, una seconda più subalterna e da costante indiziato di reato.
Native Son utilizza nel corso della sua narrazione l’altra grande elaborazione sociologica di Du Bois, la linea del colore: l’apparentemente invisibile ma costante divario che separa le opportunità e le prospettive dei bianchi da quelle dei neri. Il film dilata, rispetto al romanzo, il periodo tra l’assunzione di Bigger come autista dei Dalton e il suo omicidio di Mary. Mentre Wright porta Bigger ad uccidere Mary la stessa notte della sua assunzione, il film arriva all’omicidio solo dopo un periodo di frequentazione e uscite tra Bigger, Mary e i rispettivi partner. In questo modo, come nelle sequenze che ci mostrano Bigger muoversi dal South Side alla casa dei Dalton e al Loop finanziario di Chicago, la linea del colore sembra davvero attenuarsi in ottant’anni di storia americana. Contrariamente alle apparenze, tuttavia, il film ribadisce con forza questo divario sia nella riaffermazione del tabù del rapporto sessuale interraziale sia nel definire, in ultima analisi, i movimenti di Bigger nello spazio urbano come effimeri e non come un vero progresso sociale.
L’ultimo nascondiglio di Bigger prima della sua uccisione a freddo da parte della polizia è in una fabbrica abbandonata degli anni trenta/quaranta: uno di quei luoghi governati da capitalisti bianchi secondo quelle regole del tempo cronometrato che Bigger rifiuta all’inizio del film. Con Bigger colpito a terra, la macchina da presa in soggettiva coglie un sole abbacinante che si dissolve lentamente ma inesorabilmente su uno schermo candidamente bianco. Come per altri dettagli, il film modifica la narrazione di Wright in cui una fitta nevicata si contrappone al tentativo di fuga di Bigger ma arriva sempre al medesimo significato simbolico: l’affermazione del potere bianco. Anche dopo l’elezione del primo Presidente nero, la promessa della mobilità sociale e di un miglioramento materiale delle condizioni di vita continua ad eludere Bigger Thomas. La linea del colore rimane saldamente tracciata nella società americana.
Riferimenti bibliografici
W. E. B. Du Bois, Le anime del popolo nero, Le Lettere, Firenze 2007.
R. Ellison, “The World and the Jug”, Shadow and Act, Vintage Book, New York 1972, pp. 107-143.
R. Wright, Paura, Bompiani, Milano 1988.
Id., Native Son, And, How “Bigger” Was Born, the restored text established by the Library of America, Harper Perennial, New York 1993.
Native Son. Regia: Rashid Jhonson; sceneggiatura: Suzan-Lori Parks; fotografia: Matthew Libatique; montaggio: Brad Turner; musiche: Kyle Dixon, Michael Stein; interpreti: Ashton Sanders, Margaret Qualley, Nick Robinson, KiKi Layne, Bill Camp, Sanaa Lathan; produzione: Matthew Perniciaro, Michael Sherman; distribuzione: Film HBO; origine: USA; durata: 104′.