Ci sono luoghi segnati dalla storia. Strade o interi quartieri le cui connotazioni hanno una valenza simbolica e ne indicano i pregi o, più spesso, i difetti o i demeriti (come è accaduto al Bronx ad esempio…). E gli effetti di queste marchiature “lavorano” in più sensi e direzioni: può capitare che una fama tutta recente si avvii in un cammino all’indietro fino a riscrivere l’intera storia di quel luogo oppure all’incontrario succede che storie antiche e remote, che non hanno più una reale traccia nell’attualità, continuano a segnare quel determinato luogo e a investirne la contemporaneità. E si tratta di una fama che stigmatizza non solo i luoghi ma anche tutti coloro che ci abitano e ci vivono: sono indicatori simbolici che funzionano spesso come marchi culturalmente indelebili.
Napoli ne ha almeno tre di questi luoghi: i Quartieri spagnoli, la Sanità e Forcella. Il primo ha una storia “antica”, di cui si sono occupati anche illustri scrittori come Salvatore Di Giacomo o Gustaw Herling. Il secondo ha una fama sommersa che neanche l’attivismo illuminato di preti imprenditori riesce a cancellare. Nel terzo caso, Forcella, parliamo di una storia tutta recente: comincia a dipingersi di negativo solo quando, nell’immediato secondo dopoguerra, per riscattarsi dalla fame le attività lecite si convertono nell’illecito del mercato nero e del traffico con “gli americani” trasformando il quartiere in una sorta di immaginaria casbah. Anche il fondatore della più nota famiglia locale, Pio Vittorio Giuliano, lascia l’attività di panettiere per convertirsi alle sigarette e al contrabbando. E così la fame fonda la fama. Che si diffonde a macchia d’olio, coinvolgendo tutto e tutti.
Come è risaputo, nascere in questi luoghi significa essere segnati, perché quella nomea te la porti appresso per tutta la vita, come una seconda pelle, che contraddistingue e ti fa riconoscere: un processo che incarna la rappresentazione concreta del dominio e dello strapotere, una sorta di marchiatura forzata che generalizza e omologa, anestetizza e annulla. E, nello stesso tempo, è una semplificazione utile a escludere e a isolare, a determinare le aree off limits tra buoni e cattivi. Ma se non si fosse così faciloni e boccaloni, bisognerebbe interrogarsi sulle ragioni e la “politica” che si nasconde dietro tutto questo: lo si è fatto in passato quando si cercava di utilizzare “il siciliano” come sinonimo di mafioso e lo si dovrebbe fare tuttora quando ci si incanta dietro le banalizzazioni della vita offerta come scampolo di una molteplicità di esistenze.
Queste sono le prime cose che mi sono venute in mente guardando Forcella Strit, uno spettacolo di una geniale “coppia” che dopo il cinema torna a lavorare insieme per il teatro: Maurizio Braucci alla drammaturgia e Abel Ferrara alla regia. In realtà si tratta di un lavoro a sei mani, perché hanno aggiunto le canzoni di Nino D’Angelo, patron del teatro che l’ha prodotto, il Trianon. Mi sono venuti in mente tutti quei riferimenti proprio perché il racconto scritto per il teatro si muove esattamente nella direzione opposta alle semplificazioni e agli stereotipi: l’obiettivo è di entrare nel flusso della vita comune, nella fatica delle esistenze ordinarie, nello scambio abituale e materiale di un popolo segnato dalla propria marginalità, ma anche etichettato per il fatto di essere “di Forcella”.
Muovendosi assolutamente in controtendenza nei confronti tanto del folclore imperante quanto della patinata rielaborazione di storie locali come avviene sia quando trattano di scugnizzi sia quando si affronta la malavita oramai tutta nel segno di Gomorra che da qualche anno domina le rappresentazioni partenopee. Per raccontare questa storia “ardita”, difficile e ambiziosa Braucci e Ferrara scelgono una strada inedita ed efficace che mescola commedia, siparietti comici da avanspettacolo, sketch, interruzioni dialogiche con il pubblico, aperture ispirate a Brecht, guide narrative come se fossimo in un cabaret di qualche secolo fa. Si concentrano attorno ad alcuni personaggi “normali” con altrettante storie abituali che il quartiere intreccia tra loro. E scelgono tre anni, in particolare, per rappresentarli: 1990, 1996, 2004.
I personaggi vengono introdotti dal direttore di teatro, spesso interrompono le loro azioni per raccontarsi al pubblico, oppure la guida ci dialoga, spiega, racconta e colloca quello che accade nel tempo e nella cronologia generale. Il tutto è ancora più forte perché poggia su una compagnia di attori “giovani”, anche nel senso di essere tutti alle prime armi, ed eccellenti sia nello stare in scena sia nel canto; abili comunque nel passare dai siparietti comici alle azioni drammatiche e al canto ma anche di avviare dialoghi aperti al pubblico (da quello iniziale sul quartiere e il lavoro, forse il più difficile e il meno risolto, a quello sul matrimonio a dir poco travolgente).
Ma questa drammaturgia è un’invenzione utile e importante, perché serve anche a inserire nel testo delle riflessioni e dei “ragionamenti” collettivi, semplici ed efficaci che nascono dalla realtà delle cose. Tra i tanti ce n’è uno, esemplare, sulla “rabbia giovane”, che riguarda tutti coloro che vivono nell’esclusione e che proprio la marginalità rende incandescenti. Solo che, in questo caso, la mancanza di prospettive finisce per provocare reazioni identitarie che spingono a una radicalizzazione ancora più forte della propria condizione, fino ad accettare il “destino” che viene loro attribuito da condizione e collocazione e a incattivirsi, a schierarsi con i peggiori, a ricorrere al linguaggio semplificato e più facile della violenza.
E anche questo elemento viene intelligentemente inquadrato in un contesto ancora più ampio, che prescinde il luogo e la cultura locale, e interessa invece una condizione che è antropologica, e che riguarda i rapporti tra le generazioni e, in particolare, come queste si sono venute ad articolare negli ultimi tre o quattro decenni: la mancanza di modelli, di esempi, in una parola di padri o di “autorità” che possano regolare e guidare, fare da rifermento ma anche funzionare come elementi cui contrapporsi e contro cui scontrarsi in un rigenerante conflitto.
Questi sono solo due esempi di un labirinto di storie, di frammenti e di biografie, ma anche di difficoltà, di fatiche, di tradimenti e di fughe, di aspirazioni e di tradizioni lavorative che vanno a costruire una storia che alla fine non è solo locale ma che, proprio come la Storia, macina vite e riduce in poveri sogni, rabbie e ambizioni. Ed è su questi temi che prende il via la terza parte, quella dedicata ai morti che è la parte più poetica di tutto lo spettacolo.
È noto che Napoli ha un particolare rapporto con la morte: l’aldilà è ritenuto una sorta di continuazione dell’aldiquà, il dialogo con chi non c’è più resta aperto e continua per generazioni, le pratiche funerarie abituano alla confidenza con i resti umani che trovano una ricaduta nei più popolari e famosi rituali come quelli delle anime del purgatorio. E in questa terza parte la parola passa a chi del quartiere non c’è più e che da lontano e con sguardo disincantato guarda le palpitazioni terrene con il giusto distacco. E amore. Ed è questo il sentimento che forse pervade tutto lo spettacolo per come queste storie e queste vite vengono trattate.
Nel caso di Abel Ferrara si sente la partecipazione emotiva di chi si schiera e si fa “di parte”, di chi ha condiviso in tanti anni di frequentazione della città i legami più profondi e anche la poesia più sotterranea. Nel caso di Maurizio Braucci, si tratta anche di un bilancio di grande maturità artistica, politica e umana, nel confronto diretto e indiretto con esperienze passate al fianco di coloro che un tempo erano chiamati i sottoproletari.
In trasparenza questo lavoro recupera anche una storia “lunga”: che va dalla Mensa dei bambini proletari degli anni settanta all’attività del DAMM (Diego Armando Maradona Mouvement) negli anni novanta e che ha visto Braucci protagonista, fino alle numerose occasioni di Arrevuoto, lo spettacolo che realizza a Scampia con i ragazzi nel nuovo secolo. E ciò che affascina è innanzitutto l’amore e la partecipazione verso i diseredati, verso chi è posto ai margini, verso chi viene marchiato contro la propria volontà; e tutto questo senza complicità ma con partecipazione critica che ne evidenzia tanto i limiti quanto il loro essere vittime.
Riferimenti bibliografici
M. Braucci, Il mare guasto, e/o, Roma 1999.
S. De Matteis, Napoli in scena. Antropologia della città del teatro, Donzelli, Roma 2013.
M.A. Macciocchi, Lettere dall’interno del P.C.I. a Louis Althusser, Feltrinelli, Milano 1969.