Una peculiarità del cinema portoghese risiede nell’esplorare la forma del tempo, il suo scorrere fluttuante, l’incidersi della memoria nell’immagine e nella sua durata, la saudade di un tempo mai trascorso e forse mai avvenuto, mai vissuto. Così come una interrogazione continua dell’immagine che si deposita nel pensiero filmico, e dà forma allo spazio. Anche la capacità di filmare la parola nel suo peso specifico che genera le immagini (come avviene nei grandi film di De Oliveira) contribuisce alla composizione delle stesse immagini rispetto a oggetti e posture.

Si tratta di un rifrangersi e un riverberarsi nella tessitura iconica, il depositarsi di voci che si allontanano e si avvicinano, che predispongono il fuoricampo e ne alimentano il suo dar luogo a un campo che è come si scollasse dallo schermo per approssimarsi all’asse visivo di chi guarda, risucchiando il suo sguardo all’interno, facendo posto al pensiero dello spettatore. Lo sguardo, il limite dello sguardo, e la sua tensione a oltrepassare, a insinuarsi lungo quel limite, che è il limite del tempo, si pone come in continua metamorfosi. Tutto ciò si riscontra in almeno due film lusitani presentati alla 56° Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro, nel contesto di un concorso che ha abbattuto tutte le frontiere di formati, materiali, generi, strutture narrative, spingendo oltre, in modo volutamente sperimentale, lo sguardo e le aspettative.

Nel primo dei due film O que não se vê  di Paulo Abreu viene messo in questione appunto il limite dello sguardo. Si tratta del rimontaggio di un reperage alle isole Azzorre, Pico e Faial. La forma del sopralluogo, gli appunti per un film, la scansione progettuale delle immagini diventano il film stesso, l’interrogativo di uno sguardo e di come lo si possa misurare distendendolo e riaggregandolo in una meditazione sull’idea di “ciò che non si vede”. Su cosa si nasconde all’interno, e dietro le immagini, nella grana della visione, nella potente contingenza della natura. C’è un lavoro magnifico sul paesaggio e la luce che si sprigiona da esso, che filtra dalla nebbia che ricopre, ad esempio, la vetta del monte Pico. Il dialogo fuori campo si inoltra nelle lunghe soggettive oppure si sofferma sui piani fissi in cui l’immaginazione genera come dall’interno l’ipotesi di un film.

Ci si chiede dove sia la luna, nascosta tra le nuvole, da che parte provengano i raggi di un sole che confonde alba e tramonto. E intanto il film si fa sotto i nostri occhi, comincia a fluttuare in un non-tempo delle immagini che resta sospeso. Forse l’infinitesimale è ciò che non si vede, quello scarto appunto imponderabile che piano piano slabbra e separa, avvicina e allontana la presa dello sguardo. Un punto di presa incommensurabile (come nei momenti di visione discollocata e cosmica di alcuni film di Terrence Malick). Il potere del caso, la contingenza di ciò che può vedersi, rivelarsi, ma anche nascondersi, celarsi nel fondo di un’ombra. È l’inatteso di ciò che sempre può darsi a vedere nel flusso della ripresa, così come sempre può cancellarsi un attimo dopo: l’imprevedibile, il vedibile sempre possibile tra le immagini, l’imprevisto della vita, della sua immanenza.

Uno sguardo in macchina, un close-up sugli occhi di un vecchio apre il film vincitore del concorso alla Mostra (oltre che quello della Giuria studenti) è A metamorfose dos pássaros di Catarina Vasconcelos. La forma è quella di un “atlante della memoria”, di una sorta di wunderkammer in cui si disseminano gli oggetti, le foto, i quadri, gli specchi anamorfici, le foglie, gli erbari, le collezioni di conchiglie, le piante, le piume di pavone che procedono in una incessante elaborazione del lutto, delle cose perdute, delle persone scomparse. Vasconcelos scompone e ricompone le sue memorie di retaggio familiare, l’evocazione di due madri che tornano come dall’oltretomba con la tersa chiarità o l’alone bianco dei fantasmi. Il primo spettro della memoria ad incarnarsi è Beatrix la moglie del vecchio (il nonno della regista), quegli occhi solcati dal tempo sembrano evocarla all’inizio. Il secondo spettro è la madre della regista, scomparsa quando lei aveva diciassette anni.

Questa dimensione fantasmatica si congiunge con la tessitura delle voci fuori campo, con il loro alternarsi e divaricarsi, che suscitano il riverbero sulla mutacità delle immagini, in cui, ossessivamente, tornano le figure della cornice, dell’ovale, degli specchi, delle finestre, delle soglie, a riflettere il depositarsi dei ricordi.

Nicchie, finestre e porte sono frammenti di realtà che si distinguono per la loro capacità di delimitare un campo visivo. Sono tutte, nel medesimo tempo, negazione della parete e affermazione di uno spazio “altro”. La rappresentazione pittorica della nicchia, della finestra o della porta implica un meccanismo meta-artistico che avvia un dialogo tra frattura esistenziale e frattura immaginaria (Stoichita 1998, p. 64).

Il lavoro rigorosissimo sulla composizione dell’inquadratura, sugli oggetti d’affezione, accompagna il trascorrere della luce negli interni e l’aprirsi all’esterno nel procedere incessante della natura. La metafora dei “pássaros”, degli uccelli che nel loro volo solcano l’aria, la leggerezza delle piume, sembrano produrre una sorta di levitazione del film. In tal modo il film si pone nella sua metamorfosi inanellando vertiginosamente gli sguardi sul trascorrere del tempo memoriale. È il riverbero della vita che procede come da un altro luogo dove sopravvivono e tornano come revenants i corpi perduti. Si tratta di risalire il tempo lungo gesti minimi, perlustrazioni di dettagli.

Il tutto circola in una dimora inquieta che emerge nei suoi lati in ombra e negli angoli, negli anfratti solcati dai tagli di luce, producendo il quotidiano, il familiare come unheimlich, come perturbante. Assumendo così la forma di una sorta di galleria del pensiero e dell’interiorità che riflette i palpiti dell’anima, dell’insorgenza del tempo perduto e della fluttuazione delle identità, convocando le intermittenze proustiane insieme alle inquietudini pessoane. Vasconcelos proviene da studi di Storia dell’Arte. I riferimenti pittorici (De la Tour, Rousseau il doganiere, Bruegel, Van Eyck) si incastonano come ad espandere il vedere oltre, il vedere l’invisibile, il rendere l’invisibile visibile e il lontano vicino. La lente della memoria eterna il fantasma dei corpi, conferisce loro reviviscenza. Viene compitata così ciò che Hannah Arendt definiva la lingua materna. Ciò avviene lungo una traiettoria in cui la forma oculare, le ricorrenze dell’immagine dell’occhio, della forma globulare e lenticolare conferisce allo sguardo la sua fluttuazione, l’approssimarsi e l’allontanarsi.

Quando Beatrix racconta ai suoi bambini la favola dell’isola fluttuante che fugge ogni volta  dalla nave che cerca di raggiungerla e si rivela come il dorso di una balena che emerge e si sommerge nelle onde del mare, o quando si evoca l’inizio del Moby Dick di Melville, oppure quando le mani di lei sfogliano un libro che porta la dicitura di Miraggi: è come se si racchiudesse il senso di un film incantato, come avvolto da un sortilegio, che non cessa di navigare in quella dimensione sconosciuta e sospesa, tra vita e morte, che è la memoria. E il cinema ha la potenza ogni volta di far riemergere il sommerso dell’immagine, la sua traccia, il suo ricordo, la sua interminabile metamorfosi.

https://youtu.be/H6MtkI0JS0Q

Riferimenti bibliografici
V.I. Stoichita, L’invenzione del quadro, Il Saggiatore, Milano 1998.

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