Poi irrompe l’Evento – quello (in)atteso dai tempi di Heidegger e di Badiou – e tutte le opere d’arte si prestano all’improvviso ad un’ermeneutica dettata dalla contingenza.

Non ho mai amato Visconti, anche se riconosco la genialità dell’incipit di Ossessione, e non ho amato Morte a Venezia quando l’ho visto al cinema alla fine del liceo. Ma adesso che siamo in piena pandemia da Coronavirus, questo film buono per le lezioni di cineturismo, questo film sostanzialmente muto dove non c’è niente da guardare se non il voyeurismo del protagonista, dove non succede niente se non la flânerie di un dandy che incontra la passante di Baudelaire nel vestito da marinaio di Corto Maltese (il personaggio di Hugo Pratt è associabile alla prima scritta che compare nel film: il nome Esmeralda), — adesso questo film sembra parlare ad un’epoca in cui anche l’andare a zonzo è sostituito da un obbligo alla visione a distanza.

Erranza e veggenza: ma non è Neorealismo, è Grand Tour. L’immagine-percezione si scontra e s’incontra con l’immagine-affezione, il volto che rimanda al corpo come oscuro oggetto del desiderio, e invano aspira a farsi immagine-azione: il turismo è sì sessuale, come si conviene all’immaginario di massa sull’Italia e su Venezia (si riveda Tempo d’estate, targato David Lean 1955, dove la protagonista è un’attempata signorina americana alla ricerca del latin lover destinato a produrre l’esperienza indimenticabile), ma la pulsione non diventa strategia di seduzione, e i palpiti del cuore finiranno con un infarto.

L’atmosfera ovattata del Grand Hotel Des Bains – un luogo iconico quanto la Fenice di Senso – fin dall’inizio s’impregna di elementi non filmabili: il caldo dello scirocco come vento della pazzia; e soprattutto il puzzo del medicinale versato dagli inservienti del comune (i manifesti firmati dal sindaco alludono al colera ma non lo nominano, come invece succederà per quelli che legge Leopardi nella parte napoletana di Il giovane favoloso di Martone). E all’improvviso diventa congrua quella scenetta iniziale con i bersaglieri a passo di marcia: il territorio è già militarizzato, il dorato isolamento al Lido è già una quarantena.

Esmeralda: il nome della nave che porta Ascenbach a Venezia (nella luce impressionista di un Monet) si rivela poi il nome della bella prostituta del bordello, che peraltro suona al piano Für Elise, magicamente proseguendo una precedente esecuzione di Tadzio. Siamo in piena metafisica della puttana, per dirla con Laurent de Sutter, poiché l’efebico Tadzio non è il semplice complemento oggetto del desiderio del protagonista: troppo spesso, mentre va via di spalle, si gira e guarda («Caratteristica della civetteria è il guardare con la coda dell’occhio insieme al volgere il capo a metà» aveva scritto Georg Simmel nel 1909, in un saggio sulla civetteria che Thomas Mann potrebbe aver letto); dunque risponde, lasciando ad Ascenbach (e allo spettatore) l’onere dell’interpretazione di questa coazione a ripetere.

La lunga sequenza dei pedinamenti geolocalizzati dalle targhe (Fondamenta de la Malvasia Vecchia, Rio Menuo o de la Verona) è strutturata in un preciso gioco della relazione amore/morte, desiderio/rischio: in un’inquadratura, a metà strada fra Tadzio (su un ponte) e Ascenbach (su un altro ponte, come un’altra nota in uno spartito architettonico) si colloca il disinfestatore con il suo liquido biancastro e maleodorante (candeggina?); in un’altra, i due sono separati dal fumo nero di un fuoco crematorio; in un’altra ancora, Tadzio si mette in posa scultorea in mezzo a due manifesti di segnalazione pericolo, a confermare che è proprio lui l’agente della pestilenza.

Alla fine, Aschenbach crepa di mal di cuore/amore e Tadzio rimane eterno in posa davanti al treppiede di una macchina fotografica: il cinema è la morte al lavoro, ma anche il desiderio in vacanza. Come aveva spergiurato il direttore del Des Bains: “Non c’è nessuna epidemia”.

Morte a Venezia. Regia: Luchino Visconti; soggetto: Thomas Mann (romanzo); sceneggiatura: Nicola Badalucco e Luchino Visconti; fotografia: Pasquale De Santis; montaggio: Ruggero Mastroianni; musiche: Gustav Mahler, Franz Lehár, Modest Petrovič Musorgskij, Ludwig van Beethoven; interpreti: Dirk Bogarde, Romolo Valli, Marisa Berenson, Carole André, Björn Andrésen, Silvana Mangano; produzione: Warner Bros.; distribuzione: Dear International; origine: Italia, Francia, Stati Uniti d’America; durata: 130′; anno: 1971.

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