To shoot is to shoot. Girare è come sparare. O viceversa. È una frase che, nel corso del tempo, s’è fatta d’uso comune, banale strumento critico, bric-à-brac esegetico: in fondo, come in inglese, una semplice tautologia. Filmare come uccidere, essere regista come un assassino. Il cinema? Lo sappiamo, la risposta è facile: “La morte al lavoro”. Come a dire, dunque, che c’è sempre una responsabilità, dietro il produrre l’immagine eterna di una realtà istantanea. Una colpa, persino. E allora come coniugare questo peso con la carriera di un regista di scuola cormaniana come Monte Hellman, di frequente non accreditato (e dunque irresponsabile) nei film in cui ha lavorato, chiamato alla bisogna a tappare buchi, risolvere di nascosto problemi come montatore o operatore, e – anche quando firmatario, quando autore o quantomeno regista – costretto a operare su commissione, dentro i generi e i riti del cinema di serie inferiore?
Partiamo dalla fine, da Road to Nowhere, l’ultimo suo lungometraggio, il primo a essere presentato in Concorso a un festival maggiore, alla Mostra del Cinema di Venezia 2010 – ma è o non è un autore Hellman, il regista di Strada a doppia corsia [Two-Lane Blacktop, 1971], certo, ma anche di Silent Night, Deadly Night 3: Better Watch Out! [1989]? È un autore malgrado tutto. È la storia del regista (interpretato da Tygh Runyan) Mitch Haven (l’acronimo è lo stesso di Hellman: il film è pieno di riferimenti autobiografici e frammenti di personale archivio cinefilo), che sta preparando un film su una donna di nome Velma Duran, amante suicida di un celebre politico locale.
Solo che, lentamente, i fatti noti si aprono a dettagli ignoti, la ricostruzione s’ammanta di dubbi non risolti, il set s’ammala di tormenti: Laurel (Shannyn Sossamon), l’attrice scelta per il ruolo di Velma, donna di cui il regista s’innamora, pare essere troppo coinvolta, i fatti reali non sembrano esserle estranei, la cronaca finisce per fondersi eccessivamente con la sua messa in scena, confondersi in un enigma indistricabile, e il cinema si trova a riattivare sul serio, tra scena e retroscena, quella storia reale, per portarla a un compimento mai avvenuto prima, ma solo raccontato: se Laurel è veramente (ma importa?) Velma, e dunque una donna che visse due volte scampata a quel (finto?) fatto di cronaca, allora deve morire. Come – direbbe John Ford – si stampa la leggenda: il cinema la invera.
Laurel è uccisa da un colpo da fuoco, accidentale, dell’assicuratore che sta indagando sui fatti (e sul film) e poi vendicata dell’uomo che l’ama, Mitch, il regista. Velma, dunque, finalmente, muore. Quando le autovetture della polizia raggiungono il luogo dei delitti, Mitch è alla finestra, con una Canon 5D Mark II in mano, con cui ha appena ripreso la scena del crimine. Gli uomini di legge urlano al megafono: “Getta l’arma”. Ed è la macchina da presa, per l’appunto. Nel finale (i finali sono uno dei marchi d’autore di Hellman, si pensi alla pellicola che brucia per porre fine a Strada a doppia corsia o all’improvviso taglio della testa del gallo in Cockfigher [1974]) quel che resta è l’immagine di Laurel, l’immagine di Velma, appesa alla parete della cella di un carcere, una fotografia a cui lo zoom s’avvicina, fino a entrare dentro la sua grana, fino a far coincidere lo schermo con la bocca di Laurel/Velma: i fatti reali non sono risolti, l’enigma rimane, un uomo è in galera per la sua ossessione d’amore e di cinema, le labbra sono mute e ammalianti, e un’immagine resta un’immagine: null’altro.
È chiaro che questo film, in cui to shoot is to shoot, letteralmente, non possa che richiamare alla mente un film che in originale si intitola The Shooting (1966). La sparatoria, in italiano, certo: ma, naturalmente, anche le riprese. E che con questo si apra la memoria alle parole di Hellman relative al film e al suo gemello, Le colline blu (Ride in the Whirlwind, 1966), due classici dell’anti-western moderno (Hellman girerà un terzo western, in Italia, Amore, piombo e furore [1978], ma non possiamo parlarne qui). Due film che è lo stesso regista a collegare all’omicidio di John Fitzgerald Kennedy e, a quello seguente, e comunque “documentato” e “registrato”, di Lee Oswald, l’uomo individuato e accusato (senza processo) dell’assassinio del presidente.
«Nonostante sia stato visto da milioni di persone», dice Hellman nel libro intervista Sympathy for the Devil di Emmanuel Burdeau, «l’omicidio di JFK resta ancora oggi circondato di mistero». E continua: «Il racconto di Jack London, The Sun Dog Trail, a cui Carol Eastman si è ispirata per la sceneggiatura di La sparatoria, è basato sulla stessa idea: quella di un evento che viene osservato, senza nessuna idea di quel che sia successo prima o succederà dopo». La sparatoria e Le colline blu nascono da una commissione di Roger Corman, che, rivela lo stesso Hellman, il 24 dicembre del 1965 chiese al regista di fare due western, da girare naturalmente in contemporanea, negli stessi luoghi e con la medesima troupe (così come era avvenuto nel 1964 con Back Door to Hell e Flight of the Fury).
Il primo lo scrisse per l’appunto Carol Eastman, firmandolo Adrien Joyce – lo stesso nome con cui s’accreditò in Cinque pezzi facili ´Five Easy Pieces, 1970`, il secondo Jack Nicholson, che aveva già collaborato con Hellman nei film del 1964 come attore, e come sceneggiatore di Flight of the Fury. Entrambe le sceneggiature furono scritte in un mese. A Maggio, per Cannes, dove li accompagnò Nicholson per mostrarli in Europa (dove non ebbero felice sorte, ma furono visti, per esempio, da Godard), erano pronti.
La sparatoria è la storia di due cowboy, Willet e Coley (Warren Oates, l’attore feticcio di Hellman, e Will Hutchins) che vengono assoldati da una donna, priva di nome e comparsa dal nulla (Millie Perkins), perché la scortino verso una meta che si rivela puro pretesto: è invero sulle tracce di un uomo, probabilmente un omicida, e seguita da lontano da un sicario (Jack Nicholson). Durante il duello finale si rivela l’identità dell’obiettivo di questa caccia sadica, esattamente nell’attimo in cui muore (in ralenti, come in ralenti erano proposte dalla televisione le morti di JFK e Oswald): è il fratello di Willet, interpretato dallo stesso Oates. In Le colline blu, maggiormente strutturato e meno deliberatamente metafisico, si racconta di tre cowboy (Cameron Mitchell, Jack Nicholson e Tom Filer) che finiscono inconsapevolmente ospiti di un gruppo di assassini (capeggiati da un personaggio interpretato da Harry Dean Stanton) e poi ingiustamente scambiati per essi dagli uomini di legge: alla fuga, solo uno riesce a sopravvivere e perdersi nella nebbia, dietro le colline del titolo italiano.
Si tratta di due film che seguono e compiono radicalmente il sentiero di Boetticher, e giungono a confrontarsi in senso modernista contro le logiche del genere (tanto che, come in Strada a doppia corsia, i personaggi di La sparatoria si muovono da Ovest verso Est, in senso contrario al western): non ci sono premesse dichiarate e miti fondanti, solo inspiegabili fatti in medias des (ragiona così anche il teatro dell’assurdo), lo scontro con l’Altro finisce per essere soprattutto con se stessi, con i propri fantasmi, con una colpa non necessariamente reale (anche perché non esiste una gerarchia di bene vs male, qui), la strategia di conquista del territorio si tramuta in uno stanco e insensato attraversare il deserto, sino allo sfinimento e al riemergere improvviso del reale, la legge morale è un solo un miraggio (i personaggi sono rassegnati a delitti fraintesi e pene ingiuste), lo spettacolo lascia al posto all’osservazione della fatica, della goffaggine, del sudore di quei corpi sotto al sole (sono pochi e significativi, i primi piani del cinema di Hellman), e così l’azione è sostituita da una stasi descrittiva in cui le figure sono parte del paesaggio.
Ecco: i due western del ‘66 sembrano riempire l’abisso tra la forma del mito cinematografico e la banale assurdità della realtà. Tra le regole del gioco, del cinema, del genere, e il mondo, la sua cronaca, la sua (il)logica. Un territorio di crisi e di sintesi. «Il cinema di Hellman, per ammissione dello stesso regista», scrive Michele Fadda nel saggio introduttivo a American Stranger – Il cinema di Monte Hellman, volume da lui curato e pubblicato in occasione di una retrospettiva bolognese, «sembra ruotare intorno al buco nero generato dall’omicidio Kennedy». Leonardo Gandini conferma: «Tenendo sullo sfondo dei due film l’omicidio Kennedy, è dunque possibile affermare che Le colline blu racchiude, nei confronti dell’evento, un sentimento di indignazione e sfiducia nei confronti della giustizia, laddove La sparatoria nasce da una tangibile sensazione di smarrimento. Il processo che porta a ricondurre determinate azioni a una serie di responsabilità individuali viene minato alla base: una volta calate le une e le altre in un’atmosfera di totale indeterminatezza, il corso della giustizia si arresta, gira a vuoto, proprio come finiscono per fare i personaggi nel deserto».
D’altronde le immagini viste, riviste, studiate e portate in tribunale come prove dell’assassinio di JFK e quello del suo presunto assassino Oswald, sono la traccia di nessi causali mancanti, “messe in scena” che si interrompono all’improvviso e violentemente, documenti di realtà che sono anche e soprattutto tracce di impotenza. Il filmato di Zapruder che riprende JFK, che testimonia l’omicidio, che è usato anche per accusare Oswald. Oswald che muore, ripreso dalla tv. To shoot is to shot.
Non è un caso che, probabilmente, i due film maggiormente vicini a questi di Hellman, nel cinema contemporaneo, siano Gerry di Gus Van Saint (2002) e Twentynine Palms di Bruno Dumont (2003), due film che rispondono a un altro tragico loop di immagini: quelle dell’attentato alle Torre Gemelle dell’11 settembre 2001. E forse, la matrice profonda è quella di Film (1965) di Samuel Beckett (autore di cui Hellman portò in teatro un allestimento, ispirato a Who’s on First di Gianni e Pinotto, di Aspettando Godot): un uomo (Buster Keaton) perseguitato dalla macchina da presa, uno spettacolo che induce, che crea il suo movimento, la sua fuga, le sue risposte, e che è la sua colpa, la sua prigione, il suo e la sua fine. To shoot is to shoot. Una questione di responsabilità. Una questione di peso. Il cinema e la tv come nuovo mito di Sisifo.
Riferimenti bibliografici
J. Baudrillard, Lo spirito del terrorismo, Raffaello Cortina Editore, Milano 2002.
E. Burdeau, Sympathy for the Devil – Entretien avec Monte Hellman, Capricci, Bordeaux 2011.
M. Fadda (a cura di), American Stranger. Il cinema di Monte Hellman, Edizioni Cineteca di Bologna, Bologna 2009.
G. Frasca (a cura di), Beckett – Romanzi, teatro e televisione, Mondadori, Milano 2023.
B. Stevens, Monte Hellman. His Life and Films, MacFarland, Jefferson 2003.