Si apre il sipario rosso. Il riflesso di una lussuosa villa ondeggia sulla superficie di una piscina che questa volta non sputerà il cadavere di William Holden. Eppure Billy Wilder aleggia nella memoria cinefila dell’ultimo film di Ozon, una memoria che invoca anche i maestri della screwball comedy con le sue dive, richiama la grande stagione del cinema hollywoodiano degli anni trenta e riavvolge il nastro fino ad abbandonarsi alle nostalgie del periodo muto.

Mon crime segue due tipi di indagini che niente hanno a che fare con l’omicidio diegetico al centro del racconto. D’altronde, sovvertendo tutti i canoni dell’investigazione classica, il film non pone mai realmente quella domanda, così semplice e archetipica, che ha strutturato molte narrazioni crime: chi è l’assassino? Se il film si apre con un delitto, quello del produttore teatrale Montferrand, è pur vero che l’indagine narrativa viene doppiamente negata: dapprima da una falsa pista che, fin dalla prima scena del film, collega immediatamente l’omicidio a Madeleine Verdier, una giovane attrice in cerca di lavoro e fortuna. Tutti gli indizi, che un ispettore di polizia non tarda a raccogliere, conducono all’unica sospettata, che in effetti confessa di aver incontrato il produttore poco prima dell’omicidio, e di esser scappata a seguito del suo tentativo di violentarla. I toni naïf di Madaleine, la sua spontaneità, convincono fin da subito lo spettatore della sua innocenza, ma allo stesso tempo non convincono il giudice istruttore Gustave Rabusset, pronto a condannare la donna con la faciloneria a tratti comica di un personaggio inetto. Anche l’interrogatorio a un altro possibile sospettato, l’architetto Palmarède, alla fine si rivela una farsa, la prima delle numerose presenti nel film.
In secondo luogo, quando Madaleine, con l’aiuto dell’amica Pauline, giovane avvocata alle prime armi, si approprierà del crimine, dichiarandosi colpevole pur essendo innocente, il racconto, e lo spettatore di conseguenza, dimenticherà completamente quella domanda, ignorando che per le strade di Parigi è ancora in libertà il vero assassino di Montferrand. Omicida che non verrà scovato a seguito di un processo investigativo, ma si rivelerà spontaneamente con un coup de théâtre.

Quali allora le indagini condotte da Mon Crime? La prima è un’indagine intertestuale, che precipita nella mise en abyme di un’architettura filmica che racchiude un’ampia diversificazione di racconti finzionali: in primis le ricostruzioni, quelle ipotizzate da Rabusset che, in una sorta di re-enactment in bianco e nero, rimandano alle strategie visive del muto; ricostruzioni simili puntellano anche il processo durante la confessione di Madaleine, a sua volta un copione ben scritto da Pauline e interpretato dalla protagonista – che in una delle battute più brillanti del film esplicita la fonte cinematografica della sua ricostruzione: “Mi sono confusa con un altro crimine… cioè con un altro film!”. Ognuno, orwellianamente, visualizza la sua versione dei fatti attraverso un racconto nel racconto che tradisce una natura fittizia e soprattutto autoriflessiva anche attraverso il cambio di formato.

La spirale di rimandi continua a contorcersi vertiginosamente, prima con l’innesto, senza soluzione di continuità, della scena della decapitazione in quello che si rivelerà essere il set di un film – condanna a morte che, come vedremo, avrà un peso simbolico particolare – per arrivare subito dopo alla prima dello spettacolo “Le calvaire de Suzette”, in cui Madeleine, già anticipata da una locandina, ricalca visibilmente i tratti iconici e assolutamente moderni di Louise Brooks.

Questa trama indiziaria metatestuale arriva a nascondere riferimenti e omaggi anche in maniera più sottile, basti pensare al personaggio di Odette Chaumette, l’unica vera colpevole dell’assassinio di Montferrand, interpretata da Isabelle Huppert. Non solo Madame Chaumette, ex-diva del cinema muto, ricorda una Norma Desmond in versione grottesca, ma un fil rouge lega Huppert ad un’altra criminale francese degli anni trenta, Violette Nozière, realmente esistita e addirittura osannata dai surrealisti quali Breton, la cui vita viene rimessa in scena nell’omonimo film di Chabrol del 1978. L’attrice che presta il volto a Nozière è proprio Huppert. Il mistero, quindi, è innanzitutto quello che si dipana tra realtà e finzione, nel mescolamento tra registri visivi differenti, e che è in grado di produrre un forte piacere spettatoriale proprio nell’esaltazione di uno spettacolo sempre eccedente, artefatto e pirotecnico.

La seconda indagine del film, che in parte si ricollega a quella appena descritta, riguarda, senza alcun dubbio, il soggetto femminile, e incede in maniera atipica. In 8 donne e un mistero (2002), Ozon, in modo più lineare, architetta un percorso investigativo atto a scoprire l’identità dell’assassina. L’indagine, dunque, come spesso accade nel noir o nel woman’s film degli anni trenta e quaranta, diventa un pretesto per sondare la complessità della donna, in particolare le forme molteplici del suo desiderio. Mon Crime, invece, sovverte questo schema: l’investigazione viene annullata, sia per la conformazione della trama che per la delineazione di personaggi più stereotipati – siamo lontani da quella danza delle nevrosi dalle sfumature queer presenti in 8 donne e un mistero. Qui la vera ricerca non anela alla verità quanto alla finzione, perché solo nello spettacolo della finzione la donna può smarcarsi da una colpa ancestrale.

Madeleine, infatti, fin dal principio viene colpevolizzata dalla messa in scena, ancor prima che dal giudice istruttore. E anche dopo il processo, giunta l’assoluzione grazie all’escamotage della legittima difesa, la condanna permane, sublimata nella decapitazione relegata ad un altro livello finzionale del racconto diegetico. Madeleine deve in qualche modo essere punita, se non addirittura morire, e non solo per l’omicidio, che di fatto non ha commesso. La colpa infondata è così una condizione universale: si attua in questo orizzonte la vera indagine del film, che mette a nudo, attraverso l’ironia e la performance, i meccanismi misogini che scorgono un lembo di Eva in ogni donna.

Non si tratta di assecondare un discorso vittimistico, anzi, la valenza politica del film sta proprio in un passaggio trasgressivo che sembra sbeffeggiare l’ordine morale maschile, come a dire “ci vedono colpevoli, ci avranno colpevoli!”. Madeleine e Pauline, per quanto personaggi positivi, non sono sante o vittime indifese, ma nemmeno femme fatale crudeli. Bugiarde sicuramente, e intenzionate a sfruttare un’occasione – rinunciando alla verità pur di cavalcare l’onda del successo mediatico. Questa azione le proietta al di fuori di ogni vittimismo, ma anche al di là di ogni cornice ideologica che inquadra l’ideale puro e immacolato della “vera” femminilità.

In questa direzione, anche il topos della formazione della coppia eterosessuale – tipico della screwball comedy – viene revisionato, poiché nonostante l’unione sentimentale che lega Madeleine al giovane André Bonnard, la coppia più interessante rimane quella composta da Madeleine e Pauline, duo che darà vita a un trittico femminile con l’integrazione di Odette. Dunque, le istanze femministe all’interno del film non passano tanto dalla declamazione di slogan d’effetto, quanto da soluzioni retoriche che, con i toni leggeri della commedia, tentano di proporre strade alternative per il soggetto femminile.

D’altronde la legittima difesa esibita durante il processo è costruita come una performance, assimilabile ai numeri cantati presenti in 8 donne. Eppure di fronte a questa farsa forte è l’impeto maschile che si accanisce contro la giovane protagonista chiedendo persino la pena di morte. È evidente allora quanto l’orchestrazione di uno spettacolo, di una performance appunto, si configuri come una strategia femminista atta a svelare una misoginia strutturale e profonda che travalica i confini storici. Questo probabilmente il vero smascheramento al centro del film.

Mon Crime – La colpevole sono io. Regia: François Ozon; sceneggiatura: François Ozon; fotografia: Manuel Dacosse; montaggio: Laure Gardette; musiche: Philippe Rombi; interpreti: Nadia Tereszkiewicz, Rebecca Marder, Isabelle Huppert, Fabrice Luchini, Dany Boon, André Dussollier, Édouard Sulpice, Daniel Prévost, Jean-Christophe Bouvet; produzione: Mandarin Cinéma, FOZ, Gaumont, France 2 Cinéma, Playtime, Scope Pictures; distribuzione: BIM Distribuzione; origine: Francia, Belgio; durata: 102’; anno: 2023.

Tags     comedy, crime, femminile, Ozon
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