
Alla MEP (Maison Européenne de Photographie) di Parigi si è da poco conclusa un’importante retrospettiva su JR, lo street artist francese ormai noto a livello internazionale per i suoi grandi e controversi interventi pubblici. È forse la prima volta che un’istituzione pubblica dedica a questo artista un simile lavoro di ricostruzione e presentazione della sua opera: la mostra s’intitola non a caso JR Momentum, a sottolineare il tentativo di cogliere un punto di svolta nel campo “pratiche dell’immagine” di cui il giovane artista rappresenterebbe un caso esemplare. Momentum è però anche un concetto scientifico: esso definisce il punto di crisi nel corso di un processo fisico, che costituisce nondimeno un’opportunità d’intervento, di trasformazione della realtà. Entrambe le accezioni della categoria temporale dell’attimo, che evoca la nozione benjaminiana di Jeztzeit (Benjamin 1962, pp. 75-86), concorrono a definire il lavoro di JR.
Secondo il primo senso del termine “momento”, si delinea solo sullo sfondo del lavoro di JR una polemica con quello che, grazie all’estetica analitica (Danto e Dickie in testa, sebbene in modi diversi), abbiamo appreso a chiamare “mondo dell’arte”. Verso quale riconfigurazione è portato questo mondo dal crescente impatto della street art? E in che modo questa nuova forma d’arte rinegozia i rapporti tra mondo dell’arte e mondo tout court? Com’è stato suggerito, il mondo dell’arte si è spostato negli ultimi decenni verso una configurazione di tipo prevalentemente economico (Andina 2012): il valore estetico delle opere è sostituito spesso dal valore economico dell’opera. La posta in gioco non è solo economica ma politica (Velotti 2017): ne va del mettere a punto nuove strategie del consenso; e le arti oscillano, come ci ha insegnato Benjamin (2012), tra l’asservimento alle dinamiche ideologiche della propaganda e la proposizione di nuovi modelli del sentire e del comunicare.
È fuori di dubbio che la street art abbia offerto non solo una risposta critica ma una vera e propria via d’uscita a questa logica di appropriazione delle immagini. Il nome più celebre a livello internazionale è certamente quello del misterioso artista britannico Banksy. La sua critica del capitalismo finanziario globale è ben nota e l’ha portato a compiere di recente un’operazione tanto clamorosa quanto controversa. E credo che il lavoro di JR possa essere compreso meglio a partire da un confronto critico con quello di Banksy. Alcuni mesi fa a Londra è stata battuta all’asta un’opera di Banksy. Mentre il banditore aggiudicava il lotto in vendita, con sua grande sorpresa – non si saprebbe dire se autentica o simulata – la cornice che conteneva il disegno ha attivato un meccanismo che lo ha distrutto, riducendolo a strisce di carta, come accadeva in certi vecchi film con i documenti importanti, anzi “scottanti”, che bisogna far sparire.
Banksy si è preso gioco del mercato? Ha messo all’asta un’opera d’arte predisposta per autodistruggersi nel momento stesso in cui ne veniva decretato il prezzo? A questo mirava l’artista britannico, ma non ha fatto i conti una possibilità: che il compratore accettasse di tenersi, e pagare, il disegno distrutto. Non esporrà più a casa, o nel suo museo personale, un disegno del celebre artista, ma uno dei suoi famosi (e controversi) tentativi di criticare il sistema economico mondiale: lo auratizzerà, e con ciò lo “finanziarizzerà”. In altre parole, l’ultima provocazione di Banksy ha fatto emergere come il carattere di critica, perfino radicale, della sua arte corra il rischio di rimanere prigioniera del perimetro definito dal sistema criticato.
Banksy, si sa, viene dalla tradizione anglosassone, liberale e liberista: verrebbe da dire che ne interpreta, con pregi e difetti, l’altra faccia, quella libertaria. JR proviene invece dalla tradizione, estetica oltre che politica, francese. Ciò comporta un’attenzione costante all’intervento statale e in generale alla presenza pubblica, anche nei settori dell’arte e della cultura. Il che ha corrisposto, tra le altre cose, per ricordare una pratica che inaugura l’avventura dell’arte moderna in Francia, all’istituzione dei Salons come veri e propri momenti di esercizio del giudizio critico controllato sull’opera d’arte e sulle sue evoluzioni. E naturalmente buona parte dell’estetica francese moderna, da Diderot a Baudelaire fino a Mallarmé, si è formata attorno a questi momenti d’incontro tra gli artisti e il pubblico; ivi compresa la nascita dei Salons non ufficiali gestiti in autonomia da artisti e mercanti d’arte. In altre parole, un aspetto non trascurabile della storia dell’arte moderna in Francia riguarda la creazione, la gestione e l’interpretazione degli spazi pubblici.
Da questo punto di vista la street art non poteva non sollecitare in un artista francese come JR l’idea di ripensare il rapporto dell’opera d’arte con lo spazio, il pubblico e più in generale con la “comunità”. Che si tratti del muro che divide Israele e Palestina, lo spazio urbano della metropoli, il paesaggio rurale francese, le megalopoli di paesi in via di sviluppo o lo spazio memoriale, dunque fittizio, degli archivi del passato dell’emigrazione di massa dall’Europa o la ricreazione virtuale dell’arena pubblica dello scontro tra movimenti di protesta e governi dell’Occidente, JR fa intervenire l’immagine per restituire profondità ai luoghi e costringerci a vederli da un’altra prospettiva. E, inversamente, l’uso dello spazio pubblico come supporto dell’immagine fa sì che noi vediamo le figure – ad esempio l’enorme corpo disteso di una donna africana sui bastioni di un quai parigino – secondo profili altrimenti non percepibili.
Non è facile ridurre un lavoro tanto complesso a un significato univoco. D’altronde, la vera arte vive anche dell’ambiguità dei suoi sensi possibili. In particolare, nel lavoro di JR il gioco di scambi tra immagine e supporto-spazio pubblico merita senz’altro un ulteriore approfondimento. Di sicuro un dato emerge: non è la piazza, l’agorà che è il centro politico della polis, lo spazio di queste immagini. È la strada, uno spazio di attraversamenti non meno politici della deliberazione dell’assemblea dei cittadini, ma di diversa natura. L’incontro tra immagine e spazio fisico fa segno qui non a una politica della liberazione, ma a una politica del gesto, da intendersi come puro momento di esibizione negativa di un’idea ancora a venire, cui si può solo fare cenno e che per questa ragione sprigiona un potenziale di trasformazione del reale. È, per dirla nei termini di Jean-François Lyotard, un’immagine ridotta (in senso fenomenologico) a “spasmo” sublime.
Riferimenti bibliografici
T. Andina, Filosofie dell’arte: da Hegel a Danto, Carocci, Roma 2012.
W. Benjamin, Tesi di filosofia della storia, in Angelus Novus, Einaudi, Torino 1962.
W. Benjamin, Aura e choc, a cura di A. Pinotti e A. Somaini, Einaudi, Torino 2012.
J.-F. Lyotard, Leçons sur l’Analytique du sublime, Paris, Galilée 1991.
S. Velotti, Dialettica del controllo: limiti della sorveglianza e pratiche artistiche, Castelvecchi, Roma 2017.