La giovinezza è il luogo del rumore e della fame d’esperienza. Di un’istintività cieca, senza regole e condizioni, che si fa sovrana della percezione e definisce il rapporto del soggetto con il mondo. Ogni scoperta è un tripudio di euforia, la trasformazione è costante e spesso ricercata. Il desiderio, naturalmente acerbo, si specifica nella sproporzione ed è insieme totalizzante e indistinto, sempre vivo e dappertutto. L’adolescenza è quindi la parentesi della “vita dorata”, della felicità inedita, ineguagliabile, la zona franca dell’esistenza in cui nulla è già dato o definitivo. Tuttavia, proprio per questa essenziale indefinibilità del possibile, l’età giovane è anche il tempo dell’inespresso in cui, di fatto, il caos e l’esposizione a una moltitudine di stimoli di fronte ai quali ci si sente impreparati rendono la sfera intima un piccolo universo di pensieri e stati d’animo insondabili. Il senso dell’ignoto crea uno spazio d’ombra, un dissidio emotivo, e il silenzio è la più spontanea reazione interiore all’incapacità di comprendere fino in fondo gli eventi, così come alla paura di non saper dire e decifrare sentimenti che non si conoscono.

Essere adolescenti implica il trauma dello sviluppo di una coscienza sì ancora innocente, ma anche inevitabilmente prossima a sporcarsi sperimentando se stessa, incontrando l’altro, saggiando limiti ed evolvendo in una forma concreta e “consapevole”. Significa attraversare soglie e, soglia dopo soglia, crescere. La doppiezza e la contraddittorietà sono perciò tipiche dell’atteggiamento di chi vive per la prima volta e non sa come si fa, di chi deve imparare a distinguere cosa è giusto e cosa no e si lascia trasportare dalle situazioni, dal sentire momentaneo, sprovvisto dell’equilibrio necessario ad avere su di essi un controllo ed aderire, di conseguenza, ad un’identità strutturata.

How to Have Sex, esordio nel lungometraggio della regista britannica Molly Manning Walker, premiato a Cannes nel 2023 e da pochi giorni disponibile su Mubi, esplora e restituisce con grande efficacia e verità questa condizione esistenziale e, sia sul piano drammaturgico che su quello formale, incastra il coming of age delle protagoniste in una narrazione binaria, ben bilanciata tra l’esterno e l’interno, l’urlo e l’afonia. Focalizzandosi sul sesso come simbolo di autodeterminazione e compiutezza, il film approfondisce il bisogno ostentato del divertimento che, soprattutto oggi, è sintomo di un disagio latente nei giovani e prova la vergogna taciturna e infantile di affrontarlo. In attesa dei risultati degli esami, le tre amiche Tara (Mia McKenna-Bruce), Em (Enva Lewis) e Skye (Lara Peake) giungono nella stazione balneare di Malìa, in Grecia, certe che il soggiorno in un resort movimentato ed esclusivo si rivelerà, alla fine, memorabile: “La migliore vacanza di sempre”.

Le ragazze si tuffano entusiaste nella mischia, animandosi e sghignazzando fastidiosamente per qualsiasi cosa e novità: per l’appartamentino che dà sulla piscina e per l’outfit sgargiante che mette in risalto le forme, per le sigarette prima cadute in acqua e poi saltate in padella e, ancora, per le patatine al formaggio post-sbronza da divorare a notte fonda mentre, sedute in strada, progettano il futuro. Ogni giorno è una festa, e ad ogni festa l’obiettivo comune è quello di trovare qualcuno con cui andare a letto, magari prima delle altre per non dormire sul pavimento scomodo in cucina (e cioè per non sentirsi meno belle e appetibili) o magari, nel caso di Tara, per disfarsi del peso di essere l’unica vergine (e cioè difettosa) del gruppo. Il trio si ubriaca e balla fino all’alba. Si muove disordinato nel subbuglio dei vestiti abbandonati per terra. Maldestro inciampa tra le bottiglie svuotate dei superalcolici. La musica è alta, invasiva e assordante, i corpi sfuggono e non si fermano quasi mai. I discorsi in particolar modo, frivoli e lasciati a metà, non riescono a bucare la superficie dei personaggi e a delinearli psicologicamente tanto che, se si dovesse tener conto di un solo livello narrativo, quello marcato e a primo impatto più “visibile”, non si riuscirebbe a trovare uno spettatore capace di empatia.

Sin dall’inizio è evidente il significato del disturbo e dell’eccesso. La vivacità esasperata è un elemento indispensabile al richiamo del “troppo” godimento di tutto, di quella smania di fare che sostiene la vita confusionaria e vorace degli adolescenti. La messinscena è chiassosa conformemente alla rappresentazione realistica dei fatti e perché tesa a riprodurre lo scombussolamento di cui è preda l’essere umano quando, in una fase delicatissima della vita, ha ancora la piena libertà di essere “tutto”, chiunque e qualunque cosa gli venga in mente. Eppure, come si è detto, esiste un secondo livello del racconto e, una volta individuato, si (ri)scopre una realtà emozionale “segreta” e universale che, al di là della leggerezza, offre la vera chiave di lettura del film, e dà accesso ad una riflessione illuminante sul peso non trascurabile del silenzio, qui connesso al tema del consenso e dell’urgenza dell’educazione sessuale giovanile.

Tara, Em e Skye, a un certo punto fanno amicizia con gli ospiti vicini. Badger (Shaun Thomas), Paddy (Samuel Bottomley) e Paige (Laura Ambler) hanno qualche anno ed esperienza in più e lo scarto, anche se minimo, genera nelle amiche l’ansia di apparire grandi, emancipate e intraprendenti. Prima di incontrarli si accordano, ad esempio, sull’età che dovranno fingere di avere, sui corsi universitari che diranno di frequentare: inventano una versione 2.0 delle loro personalità frammentarie illudendosi di poter calzare quella finta, a loro avviso perfetta e convincente, appena costruita.

Le tre auspicano in sostanza a uno sdoppiamento che possa aiutarle ad avere l’avventura erotica che smodatamente ricercano, e anzitutto Tara e Skye non accettano quanto invece emerge a sorpresa, contro la loro volontà, divenendo il cuore di una storia che si divide a metà e che, rallentando, declina all’improvviso nel dramma. Ciò che le ragazze rifiutano di riconoscere è la scissione già esistente, interna, che se da un lato le motiva ad avere un approccio sfrontato e piacente a tutti i costi, dall’altro causa l’angoscia di nascondere dubbi, timori e virtù dentro percepite come debolezze: il sacrificio della bellezza intatta e più profonda solo perché incerta.

Mentre gridano al mondo di essere mature, complete e vissute, i loro volti tradiscono le intenzioni, rivelando un’altra dimensione e affermando la presenza di un’anima ignorata e soppressa che, silenziosamente e sinceramente, chiede di uscire fuori. How to Have Sex nasce da un proposito preciso in termini di scrittura, nel quale rientra la rideterminazione dei toni e del ritmo che dà avvio alla seconda parte. Il film si fonda sul rifiuto dell’idea del “parlare a parole” e gli scambi tra i personaggi, anziché agevolarla, complicano da subito la comunicazione. Si parla a gran voce, si parla insieme, gli uni sugli altri, senza concedersi il tempo dell’ascolto e della comprensione. Non si dice mai nulla di davvero importante e persino le frasi d’affetto, quei Ti voglio benecon cui sono solite darsi la buonanotte, risultano inconsistenti e freddi, non sollevano le amiche né dalla paura né dalla solitudine.

Molly Manning Walker dichiara di conoscere la duplice essenza della gioventù, e sceglie pertanto di attribuire il potere dell’espressione (e del proprio messaggio) agli sguardi intimiditi e disarmati delle protagoniste. Dalle sottigliezze e da alcuni primi piani emergono, già nella baraonda, sentimenti e sensazioni non detti. Le occhiatine che Tara e Skye si lanciano di nascosto l’una all’altra nelle sequenze iniziali rinviano all’insicurezza che entrambe si impegnano a camuffare. Tara “invidia” l’aura da esperta Lolita di Skye, Skye mal sopporta il fatto che l’integrità di Tara sia attraente molto più della sua sfacciataggine. Gli occhi parlano sempre, per tutta la durata del film, ma è una peculiarità che si manifesta apertamente solo nel momento in cui il racconto prende una piega diversa, a tratti thriller, con la scomparsa improvvisa di Tara.

Una notte, sul finire dell’ennesima festa in discoteca, la ragazza non rientra con gli altri in hotel e il giorno dopo, quando ritorna, fa un resoconto piuttosto vago di ciò che le è accaduto. A quel punto, l’implicito si impone nel ruolo di fulcro e traino narrativo, e al corpo trasformato di Tara, al mutismo nel quale si rifugia allontanandosi, si affidano gli esiti e la portata semantica della trama. Attraverso un processo ambiguo che ricostruisce gli accadimenti per immagini-lampo, affiora la ragione della sua sparizione. Quella notte, si scopre che Tara ha acconsentito alla proposta di Paddy di scendere in spiaggia, che lui l’ha costretta dapprima ad entrare in acqua, noncurante di vederla tremare dal freddo, e poi sottoposta ad una corte serrata e arrogante inducendola ad avere un rapporto sessuale. Tara perde dunque la verginità senza averlo propriamente scelto, con un ragazzo che non le piace verso cui le amiche l’avevano spinta, per soddisfare voglie e aspettative altrui, perché è giusto non restare indietro. Progressivamente, si distacca dalle circostanze, dai rumori e dagli schiamazzi battenti, smette di partecipare alla festa degli altri.

Tara non parla con nessuno dell’accaduto, rifiuta di raccontarlo anche quando Paddy vi allude con una battuta squallida, ma comunque il suo sguardo disinteressato comunica che la ferita è aperta, sanguina e qualcosa ormai deve cambiare. L’ultima sera, la ragazza saluta tutti e decide di andare a dormire. Gli amici ritornano che fuori albeggia e Paddy, raggiungendola a letto, la obbliga ad un secondo rapporto forzato benché lei, dandogli le spalle, non sia completamente sveglia. Solo l’indomani, in aeroporto, Tara si fa coraggio e con un fil di voce confessa ad Em la verità. Un’inquadratura ne spezzetta il volto riflesso negli specchi adiacenti di un negozio, la riconsegna in un’immagine rotta, duplice appunto, com’è normale sentirsi e si ha diritto di essere, senza sensi di colpa, alla sua età. Tanto il rumore, ma molto di più il silenzio. Della giovinezza il film non tralascia nulla, la fotografa per quella che è, e sollecita un’interrogazione sulle dinamiche in gioco laddove resta zitta.

How to Have Sex è un affresco della gioia di vivere, del brio, dell’eccitazione e del bisogno di spingersi sempre in là che contraddistinguono gli adolescenti. Allo stesso tempo, confeziona però il dramma di quel senso d’inadeguatezza che, se soffocato e non risolto, può portare al superamento azzardato del confine. Tara si lascia violare, accondiscende, intuisce la gravità della situazione ma la subisce di nuovo, perché non ha mai creduto che potesse essere rilevante e decisivo avere una voce. Liberandosi tardi del giudizio esterno, la ritrova nonostante tutto nel finale, escludendosi finalmente dal coro, dalla bugia della “migliore vacanza di sempre”, e affermando con coraggio la contentezza di tornare a casa.

How to Have Sex. Regia: Molly Manning Walker; sceneggiatura: Molly Manning Walker; fotografia: Nicolas Canniccioni; montaggio: Finn Oates; interpreti: Mia McKenna-Bruce, Lara Peake, Shaun Thomas, Samuel Bottomley, Eilidh Loan, Enva Lewis, Laura Ambler, Daisy Jelley; produzione: Film4 Productions, Head Gear Films, Heretic, British Film Institute, mk2 Films, Wild Swim Films; distribuzione: MUBI, Teodora Film; origine: Regno Unito, Grecia; durata: 91′; anno: 2023.

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