Che cos’ha di speciale Modern Love? La serie in otto episodi di mezz’ora ciascuno scritta e diretta da John Carney (Once) è l’adattamento della rubrica settimanale del “New York Times” che ormai da quindici anni raccoglie la posta del cuore dei lettori. La sua pubblicazione a fine ottobre su Amazon Prime Video ha suscitato entusiasmo sulla stampa specializzata, soprattutto per il cast (Anne Hathaway, Dev Patel, Andy Garcia, Tina Fey), ma anche reazioni tiepide legate al tema della serie: cosa ci sarà di nuovo da dire dopo decenni di romantic comedies e scaffali stracolmi di romanzi rosa?

Il concept è semplicissimo: otto storie d’amore ambientate a New York. È vero che la regola aurea dei format tv vuole che i concept migliori siano riassumibili in pochissime parole, ma in questo caso – sempre secondo i detrattori – si rasenta la banalità. A maggior ragione se si considera Modern Love come parte della sterminata offerta seriale disponibile su televisione lineare e in streaming da qualche anno a questa parte: “So many series, so little time”, si potrebbe dire parafrasando un adagio noto agli amanti della lettura. Non c’è tempo da perdere scegliendo prodotti poco originali, per quanto accurati e ben recitati.

Come spesso accade, gli elementi paratestuali sono un buon punto di osservazione; in questo caso il trailer restituisce un’impressione un po’ polverosa di déjà-vu, montaggio banale e scelta di una canzone che si inserisce nel poco coraggioso solco tra il vintage e il contemporaneo: si tratta della versione di Cat Power di un grande classico, “What the world needs now is love”, composta da Burt Bacharach nel 1965 e portata dal successo da Dionne Warwick. Una scelta piuttosto scontata.

Le premesse, quindi, sembrerebbero dare ragione a chi da un lato ha apprezzato gli aspetti pregevoli della serie (cast, recitazione, fotografia, montaggio), ma, dall’altro lato, ha sottolineato la mancanza di originalità del tema che si traduce nell’ennesimo tentativo, pur formalmente corretto e gradevole, di raccontare le forme dell’amore nella metropoli romantica e cinematografica per eccellenza. 

Se però ci si allontana dalla valutazione puramente estetica, Modern Love si rivela sorprendente. È indiscutibile che attori e registi famosi siano presenti ormai in quasi ogni produzione, così come dotazioni e expertise tecniche raffinate; tuttavia, nell’abbondanza dell’offerta seriale contemporanea, elementi come il numero e la durata delle puntate, la lunghezza complessiva della stagione, il canale/piattaforma e le modalità di pubblicazione costituiscono un punto di osservazione ineludibileOra, è pur vero che anche sotto questo aspetto Modern Love non sembrerebbe un apripista: la struttura composta da otto puntate di mezz’ora è già stata nobilitata dall’immensa performance di Michael Douglas e Alan Arkin in The Kominsky Method (Netflix, 2018-), di cui è appena stata pubblicata la seconda stagione. In quel caso, però, le straordinarie capacità espressive dei due protagonisti trovano uno spazio adeguato nell’ampio arco narrativo che attraversa le due stagioni.

Modern Love, invece, è una serie antologica dove ogni episodio autoconcluso di mezz’ora racconta una storia diversa dagli altri sette. In questa struttura, ben nota fin dalle origini della tv e del cinema, è però inserito un interessante elemento di novità: gli episodi dal primo al settimo possono essere fruiti a discrezione dello spettatore, mentre l’ottavo deve essere lasciato per ultimo perché chiude, letteralmente, l’intera stagione.

Come in Kominsky, anche in Modern Love il genere è un ibrido tra comedy e drama, quella ricetta sofisticata capace di lasciare lo spettatore con un sorriso dolceamaro alla fine dell’ultimo episodio. Qui però più che sorridere si piange proprio, sopraffatti dalla tenerezza, dal rimpianto, dalla nostalgia, dalla serenità con cui si assiste alle storie dei numerosi protagonisti: Modern Love è il breviario delle relazioni d’amore nelle varie fasi della vita.

Saper raccontare in trenta minuti una storia sentimentale non è scontato: John Carney si assume l’arduo compito di mantenersi in equilibrio tra la necessità di una narrazione compatta ma credibile, la valorizzazione di grandi attori che rischiano di far passare la storia in secondo piano (come ad esempio nell’episodio con Anne Hathaway), e il jolly di una location già mostrata da qualunque angolazione possibile.

Il risultato di questo capolavoro di precisione è un progetto riposante senza essere noioso, consolatorio come una fetta di torta al cioccolato ma capace di sollevare ondate potenti di emozione e di generare una modalità di visione non banale: Modern Love si può certamente guardare tutta d’un fiato, perché la brevità degli episodi consente di passare dall’uno all’altro senza soluzione di continuità, ma allo stesso tempo dispiace consumarla in fretta, perché ogni storia è portatrice di uno sguardo particolare sull’amore, più o meno coinvolgente a seconda dell’età e delle esperienze di chi è davanti e dietro lo schermo. Ogni incontro con i protagonisti lascia lo spettatore con la voglia di tornare, rivedere, riassaporare, capire meglio.

E ciascuno trova i suoi preferiti nell’ampio campionario delle possibilità costruito dal materiale narrativo della serie: il portiere Guzmin e la sua granitica abnegazione (forse il personaggio più originale e riuscito); il giovane e deluso inventore di una app per appuntamenti e la giornalista cinquantenne disincantata ma con uno splendido sguardo limpido; la giovane donna bipolare che finalmente grazie all’amore impara ad accettare la sua condizione; una coppia adulta e stanca che riesce inaspettatamente a ritrovarsi nel ritmo regolare e ossessivo del tennis; due giovani sconosciuti che finiscono in ospedale e scoprono affinità non previste per un primo appuntamento; una ragazzina che cerca il padre in un cinquantenne che però cerca nella ragazzina una giovane amante; una coppia gay che adotta il figlio di una senzatetto; un amore maturo che sboccia e appassisce nell’ultima, dolcissima stagione della vita. 

Tuttavia, questi tratti di originalità – formato breve, pubblicazione istantanea dell’intera stagione, struttura antologica, modalità di consumo personalizzabili – non sarebbero sufficienti a collocare Modern Love tra le migliori serie dell’ultimo anno se non si considerasse la componente più importante, quella variabile che ne fa un prodotto di altissimo livello: la scrittura. Negli otto episodi ogni dialogo è cesellato, pesato, misurato perché non lasci sbavature, non faccia perdere tempo, non tolga ritmo ad una narrazione che deve necessariamente essere compatta, profonda, veloce ed efficace.

L’episodio che dovrebbe entrare di diritto in ogni manuale di sceneggiatura seriale è il secondo (“When Cupid is a prying journalist”), nel cui cast figurano Dev Patel (The Millionnaire; Lion), Catherine Keener (Being John Malkovich; Truman Capote – In Cold Blood) e Andy Garcia (The Godfather; The Untouchables; Black rain, ecc). I trenta densissimi minuti dell’episodio sono costruiti come scatole cinesi: un’intervista fra una giornalista cinquantenne e un giovane che ha creato una app per appuntamenti si trasforma nel racconto di due forme d’amore uguali e contrarie, in un gioco di specchi e rimandi che potrebbe fornire materiale in abbondanza per una commedia romantica di 90 minuti.

Nella prima parte è centrale la storia del giovane, che a microfoni spenti racconta alla giornalista empatica e curiosa la delusione per una relazione finita male. A metà episodio accade una specie di miracolo di scrittura: grazie ad un twist elegantissimo, perfettamente bilanciato, simile ad un meraviglioso passo di danza, il testimone del racconto passa alla giornalista, che confida al giovane sconosciuto la sua storia fatta di rimpianti, occasioni perdute, nostalgia, coraggio, delusione e slancio verso il futuro.

Non c’è una battuta di troppo. Questi trenta minuti scorrono lenti e veloci allo stesso tempo, dando allo spettatore – di qualunque età – la possibilità di ritrovare un pezzetto di sé: il materiale narrativo è quello che per decenni ha riempito sale cinematografiche e scaffali di libri, ma qui appare freschissimo, potente, ricco di suggestioni nuove e antiche. È la metafora perfetta della buona serialità, quella che sa utilizzare la ripetizione, il ritorno dell’identico, la variazione adeguandole al supporto mediale per cui quel prodotto seriale è pensato. In questo caso non sono solo il cast, la regia, il corredo cinematografico della serie a decretarne la rilevanza nel sovrabbondante panorama contemporaneo: è la scrittura perfetta, misurata, millimetrica, che sfrutta la brevità del formato per esprimere tutto il potenziale della parola e del ritmo narrativo.

Per una volta, possiamo liberarci dalla gabbia dell’antieroe, del cliffhanger, della suspense e abbandonarci all’eleganza di un racconto costruito per ossimori, frenetico e melodioso, veloce e dilatato, nuovo e già visto. E possiamo lasciarci andare alle lacrime sorridenti che accompagnano inevitabilmente l’ondata di emozioni, ricordi, nostalgia e speranze che le forme dell’amore moderno suscitano nella cornice consueta, ma sempre sfolgorante, delle mille luci di Manhattan.

Riferimenti bibliografici
D. Cardini, Pilots, Pilot Seasons, Serial Movies. Size Changes in TV Series from the 1980s to the 2010s, in A. Mascio, R. Menarini, S. Segre Reinach, I. Tolic, a cura di, The Size Effect. Measuring Design, Fashion and Media, Mimesis, Bologna 2018. 
J. Truby, Anatomia di una storia, Dino Audino, Roma 2009.