I fotografi sanno scrivere. E non ci riferiamo ai poeti e romanzieri che – da Lewis Carroll e Victor Hugo, Zola, Capuana, Verga fino al Cees Nooteboom di Tumbas – si sono dilettati a scattare immagini. Ci riferiamo proprio ai fotografi professionisti di cui si continuano a ripubblicare e vendere gli scritti, diciamo i libri-libri distinti dai foto-libri, utili per capire la loro arte ma anche intere epoche: da Nadar (Quando ero fotografo, Abscondita), Gisèle Freund (Fotografia e società, Einaudi), Laszlo Moholy-Nagy (Pittura Fotografia Film, Einaudi), Robert Adams (La bellezza in fotografia, Bollati Boringhieri) fino a Luigi Ghirri (Niente di antico sotto il sole, Quodlibet) e i viventi (Jeff Wall, Scianna, Toscani, Fontcuberta…). Una fotografia vale più di mille parole, eppure i fotografi quelle mille parole le scrivono lo stesso.

Tano D’Amico, il “fotografo dei movimenti”, ci ha abituato negli ultimi anni a veloci volumetti dai titoli lapidari (Anime e memoria, Postcart 2013; Fotografia e destino, Mimesis 2020) concepiti secondo una struttura apparentemente classica: foto sulla pagina destra, la prima su cui ci si sofferma; scrittura sulla pagina di sinistra. L’impaginazione al potere: quello che potrebbe apparire un commento (qualcosa di più di una didascalia, qualcosa di meno di un’analisi critica) si rivela un dispositivo retorico ben diverso. Ogni pagina di scrittura, lungi dall’essere correlata alla foto che l’affianca, ha una sua autonomia tematica, una sua valenza di riflessione (non estetica ma politica, o meglio estetica in quanto politica – senza citare Rancière o Badiou) e di tassello di un mosaico che si vede bene solo mettendosi a una certa distanza.

Il punto di partenza dell’ultimo libro/foto-libro è un appunto a matita di mezzo secolo fa, che al fotografo (che parlerà di sé in terza persona, come fosse il personaggio di un’autofiction) appare retrospettivamente come la profezia della sua vita: «L’immagine nuova, diversa, irrompe dagli strappi della storia quando c’è conflitto. Quando si mette in discussione un regime, quello che cambia per primo è il modo di guardare» (D’Amico 2021, p. 10). Dall’appunto di partenza agli appunti d’arrivo, la sensazione è quella di un’esplosione concettuale e narrativa (perché qui è in gioco l’intera vita di un fotografo all’interno della storia d’Italia post-’68) che – procedendo per parti non gerarchizzate ma individuate da titoli come di paragrafi – finisce col ruotare attorno ai concetti messi in copertina come titolo (misericordia, tradimento, parole che non fanno parte del lessico della fotografia e della critica fotografica) e come sottotitolo (fotografia, bellezza, verità fortunatamente con la minuscola, ma non per questo meno sospettabili di aura metafisica).

Misericordia è termine religioso, con una sua lunga bibliografia che va da Erasmo da Rotterdam (La misericordia di Dio) a papa Francesco (Misericordia et misera, lettera apostolica a conclusione del Giubileo straordinario della misericordia, anno santo 2015/16) passando per Leonard Cohen (Libro della misericordia). Per il fotografo «è la misericordia il sentimento che l’universo cerca di più […]. Anche le immagini la cercano, ne hanno sete, la mostrano […]. Le immagini in grado di mostrarla sono poche e bellissime […]. La vera bellezza è fatta di misericordia» (ivi, pp. 38-39). Fotografare i movimenti significa fotografare la misericordia che unisce; le immagini di misericordia, anche quando i movimenti vengono sconfitti, restano come testimonianza di un’alternativa radicale al potere.

Movimenti cioè persone cioè sentimenti. Cos’è che massimamente deve trovare misericordia nei nostri occhi borghesi se non il corpo sociale, i corpi stessi dei lavoratori, i volti degli zingari, l’aspetto quotidiano della gente comune? Il cinema – anche quello neorealista! – i corpi deve cercarli, anche solo “prendendoli dalla strada” (pensiamo all’operazione Nomadland); e, quando li cerca (dunque prima di trovarli), li vuole fotogenici, già pronti all’esibizionismo, alla pulizia pubblicitaria (o allo stereotipo). Ma il fotografo dei movimenti i corpi non li cerca, li trova, anche se a volte li coglie feriti, anche se a volte li coglie morti (Carlo Giuliani e, fuori campo, la bambina zingara uccisa dalla polizia): l’immagine di misericordia è quella che ferma i momenti del dolore (seguendo la tradizione iconografica della Pietà) ma anche tutti i momenti di gioia non pubblicitaria, compresi gli eventi di lotta colti come rituali di festa collettiva.

Anche tradimento è termine religioso, particolarmente pregnante per i cristiani (cito solo Giuda il tradimento fedele di Zagrebelsky e Il vangelo del traditore di Ehrman), ma ovviamente anche termine politico (con una bibliografia che va dal classico di Julien Benda Il tradimento dei chierici, datato 1927, a Il tradimento di Giulio Giorello; e siccome pochi giorni fa è scomparso l’editore Arturo Schwarz, ricordiamo che fu lui a pubblicare in italiano nel 1956 La rivoluzione tradita di Leone Trotsky). Quello che frettolosamente abbiamo chiamato riflusso, come se si trattasse di un fisiologico passaggio dalla sistole della contestazione alla diastole della restaurazione, nella visione di Tano D’Amico – non un racconto preciso ma una serie di allusioni che chi deve capire capirà – diventa il crollo di nervi di una parte della sinistra italiana: il tradimento dei chierici è innanzitutto quello di alcuni “giornalisti di movimento” che decidono di far carriera nella grande editoria padronale o partitica; e poi quello degli stessi giornali che pubblicavano le “immagini di misericordia” prodotte dai fotografi di movimento, immagini votate alla distruzione (che è sempre distruzione della memoria, damnatio memoriae) mediante “svecchiamento degli archivi”. Infine, «per cancellare le immagini di movimento già entrate nella memoria si incoraggiò il lavoro di fotografi senza scrupoli e privi di consapevolezza. Dovevano produrre immagini in cui i giovani dei movimenti, le donne in lotta, sembrassero mostri assetati di sangue e di violenza» (ivi, p. 23).

Il fotoreporter è sempre embedded, sembra dire il guardiano dell’archivio, il custode della memoria collettiva altra: se non sono immagini di misericordia, sono immagini di tradimento; se non sono per una diversa (auto)rappresentazione dei “miseri”, sono per l’insulto iconografico spacciato per documento oggettivo. E se in questo c’è del manicheismo, o quello che una volta si chiamava catto-marxismo (il libro di Augusto Del Noce Il cattolico comunista è del 1981), è perché «chi non rinnega la misericordia vissuta da bambino» non può avere dubbi alla soglia degli ottanta anni: il fotografo di movimenti è una professione di fede.

Tano D’Amico, Misericordia e tradimento, Mimesis, Milano 2021.

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