deleuze

Differenza e ripetizione è la Critica della ragion pura di Deleuze: la scansione kantiana “Idea – intelletto/intuizione – esperienza” diventa “virtualità – intensità – attualità”. L’intensità drammatizza (cioè schematizza) i rapporti differenziali e le singolarità dell’Idea virtuale, producendo linee attuali di esperienza che s’incontrano: questo mare, questo corpo che galleggia, il sole, l’occhio che lo fissa. La prima Critica di Kant è una ricognizione della conoscenza per circoscriverne il territorio e vedere i limiti oltre i quali mareggiano le Idee. Differenza e ripetizione è uno studio dell’apprendimento, che è la soglia tra l’inconoscibile e il conoscibile, il problema e la soluzione, l’Idea e l’esperienza. Come per esempio imparare a nuotare, che significa coniugare le singolarità del nostro corpo – la sua capacità di movimento – con le singolarità dell’Idea di acqua perché formino insieme un campo problematico. L’istituzione di questo campo significa la soglia di coscienza che permette ai gesti del nuotatore di adattarsi alle percezioni dell’acqua e di dare così una soluzione al problema. “Apprendere” indica il passaggio tra l’oscuro e il chiaro, tra quel che non capiamo e ci si avventa addosso – come ad esempio le onde del mare, soprattutto se è la prima volta – e quel che siamo capaci di prenderne e agire: “apprendere non è se non la mediazione tra non-sapere e sapere, il passaggio vivente dall’uno all’altro” (Differenza e ripetizione, p. 215)

L’anti-Edipo è la Critica della ragion pratica di Deleuze. Kant era alla ricerca di una facoltà di desiderare e volere che potesse determinarsi in modo puro per essere la causa della realtà dei propri oggetti senza farsi influenzare dall’ambiente e dalle opinioni degli uomini. Deleuze ne L’anti-Edipo descrive un desiderio liberato dalle cose che lo bloccano, lo imprigionano, lo costringono ad abitare un mondo fatto di vuoti e assenze, sogni e visioni, persone e oggetti che si rincorrono. Il desiderio non è una “facoltà umana” e non insegue cose, perché è fatto di flussi impersonali che si avvolgono, è tutto pieno e non manca di nulla, come lo sfero di Parmenide. Però, diversamente dallo sfero, non è perimetrato all’esterno ed è fatto come un brodo in ebollizione che surriscalda e cancella anche i limiti interni. I limiti diventano sfrangiati perché i flussi del desiderio sono anche mattoni volanti ed esplosioni, fanno saltare per aria l’integrità dei corpi. È come se le singolarità e le intensità di Differenza e ripetizione si mangiassero l’attualità dell’esperienza e rendessero incerta la soglia dell’apprendimento che fa comunicare il virtuale con il reale. Bagnare in modo oblioso nei flussi che si allacciano e si sciolgono vuol dire “trattenere” i punti singolari dall’estendersi in serie di punti ordinari che convergono e danno un volto, una faccia – più o meno consueta, più o meno edipico-famigliare –, alle divinità anonime e impersonali del desiderio. Ogni singolarità dell’esperienza viene tenuta in considerazione non per il processo di attualizzazione di cui è l’origine, ma perché esprime altre singolarità, che a loro volta sono la ramificazione di altre singolarità ancora. “Desiderare” vuol dire farsi carico della genealogia virtuale e intensiva che sta alle spalle di ogni singolarità. Kant rischiava di dare in pasto agli uomini – come sempre affamati di “bene” – i chiodi arrugginiti del formalismo etico, condannando tutte le specie di vita intelligente a una colpevolezza che non si può rimettere, schiacciandole per sempre a terra, allontanando dal mondo lo spettro della libertà per rinchiuderlo in interiore homine. L’etica deleuziana, invece, rischia di far venire il capogiro, perché abbandona l’individuo al circuito di una metamorfosi che non mette capo a nessuna forma definita. La fascinazione de L’anti-Edipo per il “corpo senza organi” e la schizofrenia significa appunto questo, un’etica al limite dell’auto-distruzione.

Mille piani è la Critica del giudizio di Deleuze. Nella terza Critica Kant mostrava in che modo i mostri marini delle Idee vengano ogni tanto a sguazzare nei laghetti e negli stagni dell’esperienza. Anche dentro i poveri fenomeni – seppur di rado – batte il cuore della libertà (Kant lo spiega nel suo saggio sulla Rivoluzione francese). In Mille piani Deleuze, in modo analogo, mostra come l’incandescenza dei flussi del desiderio deve comunque stare dentro il mondo dell’abitudine. Anche il desiderio dice “Larvatus prodeo”. È una misura di prudenza che serve a farlo sopravvivere e continuare, perché per i flussi il pericolo più grande è d’ingorgarsi dentro se stessi, d’innamorarsi troppo del proprio carattere frammentario e di far finire tutto in un grande fuoco d’artificio che si perde nel nero della notte.

Il motivo ricorrente di Mille piani è la presenza di un nodo e la necessaria sovrapposizione tra le linee d’esperienza: linee molari, linee molecolari e linee di fuga. Se la linea molare significa l’abitudine, la normale “conversazione” degli elementi, il botta e riposta tra l’uno e l’altro, la “segmentarietà fissa” (Mille piani, p. 275) che tiene insieme la goccia e la pietra su cui cade oppure agli amanti, la linea molecolare, “linea di segmentarietà flessibile” (ivi, p. 284), è invece la “sottoconversazione” che non costringe i gesti dentro una cornice predisposta e permette loro di essere sorprendenti. Gli elementi in gioco si attraggono e respingono, si aggrediscono e si repellono, si scambiano colpi che riempiono le distanze che a noi sembrano fatte di vuoto. La molecolarità “deterritorializza” la molarità perché non ne rispetta i confini. La differenza tra “conversazione” e “sottoconversazione”, molarità e molecolarità, è una differenza tra stati della materia, come il liquido e il solido: la molecolarità è il diventare dinamico di una situazione, mentre la molarità è la situazione cristallizzata. Nell’esperienza molecolare ci sono forze, flussi, tensioni e colpi. Ci sono cose, ruoli e persone in quella molare. Alle volte, però, non ci va né di seguire i binari dell’azione molare, né di “trasgredire” molecolarmente. È in questo caso che possono prodursi linee di fuga. La linea di fuga è un’esperienza d’insofferenza e ritrosia, è una potenza antisociale. È la linea che seguiamo quando “il corpo soffre d’essere così organizzato, di non avere un’altra organizzazione, o assolutamente nessuna organizzazione”. Il desiderio di “nessuna organizzazione” disegna linee di fuga. Se nella linea molecolare il rapporto è sempre da rinegoziare – quindi, rispetto alla linea molare, essa funziona come una deterritorializzazione relativa – la fuga significa una deterritorializzazione assoluta, spazio desertico in cui i rapporti sono saltati e il movimento smette di essere il predicato di una sostanza per diventare tutta la sostanza che c’è. La fuga è gli elementi che saltano per aria senza ricadere a terra. Se la molarità è un’organizzazione già data e la molecolarità è l’attivo organizzarsi dell’incontro e del rapporto, la fuga è il disordine assoluto dal quale può venire fuori ogni tipo d’incontro e di rapporto.

Paolo Vignola nelle ultime pagine della nuova edizione italiana di Mille piani (con un’introduzione di Massimiliano Guareschi) dice giustamente che, dopo L’anti-Edipo, anche questo libro è:

una prassi teorica […] delle molteplicità, il cui fine è una emancipazione del pensiero e della politica […] su più livelli, ossia rispetto ai numerosi dispositivi disciplinari delle stesse discipline teoriche, dalla psicoanalisi alla linguistica, dall’antropologia all’epistemologia e così via (p. 704).

Ma l’emancipazione può diventare una cosa pericolosa. L’ultima tentazione emancipatoria è la fuga assoluta, la linea di fuga sganciata dalle altre due. È un pericolo, perché la fuga deve andare a parare da qualche parte, deve avere un rapporto dialettico con l’altro da sé e, se non trova nessun sostegno, finisce per avere l’unico limite della propria distruzione (sarebbe un ritorno alla dépense de L’anti-Edipo). È quello che succede alla “macchina da guerra” quando diventa macchina di belligeranza, quando – come nel nazionalsocialismo – lo stato diventa suicidario, quel che succede agli alcolisti, ai tossici e in tante altre situazioni in cui il gesto che dovrebbe creare nuove forme impazzisce e divora se stesso. Invece per Deleuze è necessario che la linea di fuga incroci sempre le altre due: la “sublimità” infuocata della fuga deve raffreddarsi in qualche forma di “bellezza”. La fuga non è un esercizio assoluto ma “occasionale”, deve mettersi alla ricerca paziente dello spazio-tempo in cui cominciare, ma senza mai potersi staccare del tutto dal trampolino da cui spicca il salto.

Riferimenti bibliografici
G. Deleuze, Differenza e ripetizione, Raffaello Cortina, Milano 1997.
G. Deleuze, F. Guattari, Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, a cura di P. Vignola, Orthotes, Napoli 2017.
Id., L’Anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia, Einaudi, Torino 2002.

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