«La metafisica» – cioè lo sfondo impensato che pensa quelli che stoltamente chiamiamo i “nostri“ pensieri – scrive Martin Heidegger nella Lettera sull’umanismo, «si chiude di fronte al semplice fatto […] che l’uomo è […] nella sua essenza solo in quanto chiamato all’essere» (1995, p. 46). Al contrario, se l’umano si considera ed è considerato un ente come gli altri, ad esempio un grillo o una galassia, ebbene a questo ente manca completamente la sua “missione“ metafisica, che è appunto di pensare l’essere nella sua impensabile totalità. L’essere del mondo, infatti, non può essere propriamente pensato, perché si può pensare solo a ciò che è separato da noi, a qualcosa che si presenta a noi come, appunto, un oggetto del pensiero che se ne sta là fuori esposto al nostro sguardo. Ma l’essere non è mai separato da noi, semmai noialtri umani siamo una piega dell’essere. È piuttosto l’essere che si pensa attraverso di noi (è l’essere che ci chiama, non il contrario).
Eppure noi umani, e solo noi umani, sicuramente non i grilli né le galassie, possiamo pensare questo pensiero impensabile, perché sentiamo che l’essere è, cioè possiamo separarlo – anche se solo nel pensiero – da noi. È questa la specialità umana, che nessun Darwin può cancellare, l’umano è l’unico vivente che può pensare all’essere in quanto essere, anche se sempre di nuovo si dimentica di questo pensiero. E dimenticandosene, è questo che ci dice Heidegger, si dimentica di sé stesso, cioè di quanto di più caratteristico c’è nella sua costituzione vivente. Per questa ragione, prosegue Heidegger, «il corpo dell’uomo è qualcosa di essenzialmente altro da un organismo animale» (ivi, p. 47). Un’affermazione del genere risulta del tutto inconcepibile per la coscienza animalista ed ecologista contemporanea. Eppure i grilli non scrivono libri di filosofia, e non li scrivono perché coincidono con l’essere, e come i pesci che non sanno che cosa sia l’acqua così i grilli non hanno idea del mondo di cui fanno parte.
È questa “specialità“ umana che oggi è inaccettabile (non si può non essere dualisti), e tuttavia solo se partiamo da questa nostra curiosa posizione – dentro e contemporaneamente fuori del mondo – possiamo provare a pensare il nostro tempo, quello dell’antropocene. Per Heidegger, che non usava la parola “antropocene” ma già sapeva che viviamo nel tempo completamente dominato dall’umano, si tratta di fare dell’umano il «pastore dell’essere» (ivi, p. 56), non il padrone del mondo.

Ma che cos’è l’essere? Per Michel Serres, nell’Incandescente. Il Grande Racconto della Terra, della Vita, dell’Uomo (tradotto e curato in italiano grazie alla cura preziosa di Gaspare Polizzi per Mimesis), l’essere, cioè quell’indeterminato e indeterminabile “aperto” in cui da sempre viviamo, è il tempo. L’essere umano non riesce a pensare il tempo – la «più resistente di tutte le cose del mondo» (Serres 2025, p. 59) – ossia non riesce a collocare la sua vita i suoi pensieri e i suoi desideri sullo sfondo delle sterminate estensioni del tempo, e quindi dell’essere. In effetti possiamo credere di essere qualcosa di individuato e indipendente solo perché rimuoviamo che non siamo che l’estrema propaggine ed effimera del tempo. Si pensi a quel dispositivo metafisico che è la carta di identità, che dovrebbe individuarci in modo preciso e non ambiguo:
Desueta, la vostra carta di identità comportava solo due o tre vostre appartenenze, tra quelle che rimangono fisse per tutta la vostra vita, perché restate femmina o maschio e figlio di vostra madre; non potete mutare la vostra data né il vostro luogo di nascita. Una tale povertà logica confina con la miseria, perché infatti la vostra autentica identità si dettaglia più diffusamente e sembra anche dissolversi in mille categorie, che cambiano con il tempo. I vostri viaggi, lavori e apprendimenti, le vostre esperienze professionali, sportive, politiche fanno in fretta crescere, effettivamente, il numero dei gruppi nei quali vi integrate: domani, farete parte di quelli che parlano vietnamita, giocano a rugby, sanno riparare un motorino, niente aumenta il numero dei collettivi dei vostri simili assieme alle vostre caratteristiche personali quanto la pedagogia o l’acquisizione di nuove competenze. Come descrivere, allora, la vostra identità? Con un’intersezione, fluttuante quanto a durata, di questa varietà di appartenenze. Non cessate di cucire e tessere il vostro mantello d’Arlecchino, anche sfumato o variegato, ma più libero ed elastico della mappa dei vostri geni. Non difendete dunque una delle vostre appartenenze, moltiplicatele, al contrario, per arricchire ciò che chiamiamo di comune accordo il vostro io, tanto più felice e forte, giustamente, quanto più si libera a poco a poco dei luoghi che desideravate difendere (ivi, pp. 116-117).
È questa profondità senza fondo il tempo, e su questo sfondo infinito come possiamo ancora pensarci di essere qualcosa di definito, di autonomo, di esistente in sé? Ma come sopportare un pensiero del genere, come è possibile anche solo avventurarsi verso un pensiero del genere? Allo stesso tempo l’umano è il vivente che è “incandescente”, cioè un vivente che non smette di emettere luce, una luce abbagliante, che non si spegne mai. In effetti l’umano, e anche questo è un suo tratto unico (non ci sono grilli filosofi) è il vivente che, diversamente dagli altri viventi, vive un continuo processo di «deprogrammazione» (ivi, p. 68): in effetti l’umano non si specializza come la rondine per il volo o il pesce per il nuoto, piuttosto modifica il mondo perché si adatti alle proprie esigenze. L’incandescente comanda al mondo: «Non specializzato, l’uomo divenne, oso dire, una contro-specie: alla lettera si generalizzò. Perdendo i caratteri che specificano, egli raschiò il suo programma e divenne una generalità. L’uomo, questo sconosciuto: x a tutti i valori perché senza valore» (ivi, p. 69). Se la natura di tutti gli enti è stabilita dal mondo, per la specie umana questa relazione è rovesciata: è l’umano che decide che cosa essere (da questo punto di vista l’intelligenza artificiale, questa spietata intelligenza disincarnata, rientra nella natura umana sin dal momento in cui i primi proto-umani scesero dagli alberi, liberando le mani per la tecnica e la mimica).
Eccoli, allora, i termini della questione, di una opposizione che minaccia lo stesso mondo: da un lato il vivente incandescente, l’Homo sapiens obliviosus (ivi, p. 61), che si dimentica del mondo e della sua storia; dall’altro il tempo, sconfinato, quel tempo che è la sua stessa più intima carne:
Il mio cervello, per parlare solo di lui, si compone di parti antiche, alla maniera dei rettili, di altre nuove quanto quelle che svilupparono gli scimpanzé o i bonobo e infine di altre ancora, incomparabilmente più recenti. Strato dopo strato, lo si potrebbe datare allo stesso modo delle falesie i cui strati diversi affondano sempre più nel passato. Ugualmente, il mio DNA apparve certo con l’unione dei miei genitori che l’hanno costruito come si mescolano le carte, ma nella sua propria struttura, esso ha più di tre miliardi di anni; più antichi ancora, gli atomi che lo e mi compongono risalgono alla fabbricazione dell’idrogeno e del carbonio tramite l’energia galattica dell’universo (ivi, p. 30).
Si tratta, in questo consiste il lungo e appassionante racconto di Serres, di provare a immaginare un modo per superare questa opposizione, per riportare l’umano al tempo, e quindi al mondo. Ma un’operazione del genere, ammesso che sia possibile, forse richiede all’umano di rinunciare alla sua stessa incandescenza, o meglio, rivoltarla su sé stessa. In effetti la luce, prima che essere umana, è la luce del mondo, antichissima e paziente. Non si tratta tanto di diventare ancora più incandescenti (come sognano i transumanisti), al contrario, si tratta piuttosto di lasciarsi illuminare dalla luce del mondo, verso la nostra «mancanza non sradicabile, perché infinita», verso «una totalità inaccessibile legata alla nostra infinitudine» (ivi, p. 102).
Forse a suo modo Heidegger aveva ragione, anche se la proposta di Serres è più radicale, e meno patriarcale del pastore e del suo gregge. In effetti il pastore tipicamente è un uomo, e il suo gregge gli dà lana, latte e carne. In effetti si può immaginare un diverso modello di umano. Per Michel Serres questo modello è quello, un modello che colpisce sempre più l’immaginazione degli umani, di Francesco di Assisi:
Vestito di un saio e bevendo l’acqua dei ruscelli, mendicando il pane sul percorso e passando per buono a niente, senza dimora né domicilio fissi, il francescano non fa finta come noi, filosofi, che pretendiamo la critica e l’abbandono di ogni finzione, perché raggiunge il misero che, solo, vede gli uomini tali e quali e il mondo stesso, scorge l’ombra della gloria di Alessandro anche in pieno sole e comprende chiaramente il canto degli uccelli, l’ululato del lupo, l’acqua chiara e il Verbo trascendente. I Fioretti e le loro bestie leggendarie accendono al senso e alla verità più autenticamente delle […] Meditazioni, cartesiane o mie. Ritornare alle cose stesse richiede di gettare al fuoco la propria camicia e le proprie scarpe e di partire verso di esse in questa semplice attrezzatura. Da miseria nascerà la filosofia (ivi, p. 223).

Riferimenti bibliografici
M. Heidegger, Lettera sull’umanismo, Adelphi, Milano 1995.
Michel Serres, L’incandescente. Il Grande Racconto della Terra, della Vita, dell’Uomo, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2025.