Il cortocircuito tra sapere e mondo, tra oggetto e rappresentazione, tra materia prima e apparire è la chiave di volta del pensiero filosofico come del processo artistico. In questi giorni si conclude la mostra di Anish Kapoor a Palazzo Strozzi ed esce, per i tipi di Marsilio, il delizioso saggio di Federico Leoni Metafisica dello specchio. Anish Kapoor e la poesia delle superfici (Venezia, 2023). La combinazione tra filosofia e arte è, in questo caso, più che felice e il volume di Leoni cattura quella che potremmo chiamare l’estetica del ribaltamento, una delle cifre fondamentali del lavoro di Kapoor: costruire oggetti capaci di incarnare quella tensione tra opposti che articola la struttura della realtà.

Molto spesso i lavori di Kapoor ci pongono nel punto di equilibrio precario tra dimensioni antitetiche: il dentro e il fuori, l’esterno e l’interno, il concavo e il convesso, il vuoto e il pieno, il mondo e la sua immagine. Da anni, la compresenza dialettica di queste polarità è il tema ricorrente del suo lavoro: dalle opere ormai classiche, come il famosissimo Cloud Gate a Chicago nel 2004 detto il fagiolo a Dirty Corner che nel 2011, a Versailles, suscitò scandalo e reazioni per il suo evidente ma non gratuito richiamo sessuale (un tunnel rosso ruggine lungo 60 metri, protetto da enormi blocchi di pietra di 25 tonnellate, soprannominato la vagina della regina). In questi lavori, al di là della realizzazione fisica apparentemente diversa, l’obiettivo è cogliere l’istante dell’inversione reciproca fra le due facce del medesimo piano di immanenza: sopra che diventa sotto, destra che diventa sinistra, negativo che diventa positivo.

Come ha detto Kapoor stesso, «ciò su cui lavoro, in un certo senso, è il negativo senza il positivo, è il non-oggetto. Se vuole si tratta di cercar la pelle, che descrive in qualche modo lo spazio interno senza descrivere lo spazio esterno». La questione della pelle, su cui Leoni scrive pagine molto acute, è fondamentale; è la declinazione delle superfici (dei piani) di cui parla nel sottotitolo. La pelle è l’interfaccia dove noi diventiamo quello che siamo, è il con-fine dove ci de-finiamo vicendevolmente con il mondo. E così l’oggetto diventa superficie, ma anche pelle, che si introflette come la vagina o che si estroflette come un orecchio e, nel tentativo di superare i suoi limiti, si sublima diventando superficie riflettente, specchio. E così, specchio, pelle, vuoto, pieno, nero, diventano la stessa cosa.

Non è un caso che tre colori dominino l’opera di Kapoor: il rosso, il nero e l’invisibile (inteso proprio come il colore dello specchio). Si tratta di colori che indicano il vuoto e l’interno, la presenza e l’assenza. Il rosso è il colore dell’interno che viene fuori spellando il corpo di noi umani (il richiamo ad Apollo e Marsia è obbligatorio). E così il rosso ruggine di Dirty Corner e, in varie sfumature, di Tarantara (1999), Marsyas (2003), Dismemberment (2009), o del più recente Svayambhu (2007, oggi riproposto a Palazzo Strozzi) diventa materia stessa: ciò di cui è fatto l’interno. Una forma sensibile, il colore, diventa la materia di cui è fatto l’interno; l’ennesimo ribaltamento kapooriano. È per questo che la cera, di cui molte opere di Kapoor fanno largo uso, è rossa: perché è fatta di ciò che è dentro, anzi è fatta di dentro. Il dentro, che è una relazione, viene così materializzato e reso omogeneo con una realtà fatta di cose, e quindi piena. Ancora una volta, l’opera di Kapoor, che Leoni smembra concettualmente, realizza l’inversione. Il vuoto che è condizione di interiorità e concavità diventa invece pieno e materico.

D’altronde, sia Kapoor che Leoni sono affascinati dalla sospensione del pieno, che poi è il vuoto che si trova all’interno: nel caso di Dismemberment ci riporta fuori e nel caso di Dirty Corner ci costringe a ritornare all’esterno dato che è un tunnel senza uscita (come appunto l’organo femminile). È il passaggio dall’essere al non essere e, viceversa, dal non essere all’essere. Non a caso l’altro tema ricorrente è quello del foro che si incarna in un vortice dove la realtà precipita (come in Descension, 2014, un gigantesco ed eterno gorgo vorticoso che ingoia il mondo). Foro come vortice, e quindi come divenire altro da sé; il nulla insaziabile al centro dell’esistenza.

Ma che cosa è un foro, se non un buco, ovvero un’apertura della natura sulla non-natura, e come renderlo fisicamente presente se non usando quel colore che, cromaticamente, è l’assenza degli altri colori? Come il foro di Descension ingoia lo spazio, così il nero ingoia i colori. Così l’estetica del foro si sposa con quella del nero che è, per sua natura invisibile. C’è qualcosa di ancora più invisibile? Come vedremo sotto, è lo specchio. Rendere visibile l’invisibile – che poi, detto così, sembra l’essenza dell’arte classica – ma non nel senso di una realtà trascendente, bensì nel segno dell’assenza resa presente: trionfo degli opposti.

In questa sessualità dei contrari, Leoni mette in risalto quella che si potrebbe definire un’estetica del ribaltamento, un’interfaccia che rovescia la realtà in modo simile al bordo della moneta che unisce due facce altrimenti reciprocamente invisibili. Scrive Leoni, «in Kapoor lo specchio è una figura onnipresente […] non è una metafora dello sguardo, […] è un operatore della reversibilità, un punto di rovesciamento attraverso cui si riversano l’uno nell’altro il dentro e il fuori, l’umano e l’inumano, il microscopico e il macroscopico». La compresenza degli opposti gioca costantemente con il rapporto tra realtà e irrealtà, tra mondo e suo riflesso, tra concavo e convesso, dove gli oggetti che scompaiono ontologicamente e percettivamente, come lo specchio, i buchi, le voragini, i vortici, il nero vantablack sono chiamati a essere protagonisti: «Quell’altra versione dello specchio, questa variante dello specchio che diventa macchia, voragine, cavità, punto cieco». Gli oggetti che sono non-oggetti e le assenze si fanno presenti.

Per Leoni, Kapoor crea oggetti che mettono, insistentemente, in discussione il rapporto tra esistenza ed esperienza, tra realtà e apparire e quindi tra opera d’arte, artista, spettatore. Un’opera chiave è il già citato Svayambhu, il cui nome significa, in sanscrito, colui che è nato da sé o ciò che si è generato a partire da se stesso. E qui si può giocare eruditamente sull’etimologia di Svayambhu che, in quasi tutte le lingue, si evolve declinando il sé con stessità, realizzando così una perfetta, e per questo ironica, circolarità. Se il sé si fa da solo, non potremo, correttamente, che definirlo solo sulla base di se stesso, ma così facendo l’identità diventa una singolarità che non può trovare fuori di sé alcuna giustificazione. Il sé diventa una causa sui fuori dal vertice brunelleschiano, è l’oggetto alla base della piramide e non il punto senza dimensioni al suo vertice.

Kapoor, secondo Leoni, supera la modernità rifiutando la nozione stessa di un punto di vista; «nascondendo la mano» appunto. La supera perché era stata la modernità (da Brunelleschi a Cartesio) «ad aver disanimato il mondo per raccoglierne tutta l’animazione in quel luogo segreto, in quell’unico punto – tanto privilegiato quanto angusto, tanto elevato quanto sequestrato – che sarebbe il luogo dell’eccezione umana». Di quel luogo non c’è più bisogno. È stato inghiottito da uno dei tanti buchi che abbondano in Kapoor, «ogni oggetto rivive in ogni oggetto e fa vivere l’altro oggetto nella propria materia viva». È la physis che, infatti, aveva preceduto la modernità, delineando un mondo dove l’energheia e la dynamis plasmano la realtà tutta, senza logos e senza psyche.

Leoni si interroga su «questa indistinzione tra noi e le cose, questa crescente indiscernibilità tra soggetti e oggetti» e su come proprio essa appaia «ipermoderna, futuribile, utopica o distopica perché contraddice qualcosa che potremmo chiamare il dogma della modernità» che ha «posto l’umano al centro dell’universo, facendo del soggetto il punto di vista un paesaggio di oggetti inerti e di materie disponibili». Lo stesso Kapoor vuole liberarsi dall’aura dell’artista e infatti ha sempre dichiarato di aver lavorato duramente per «sbarazzarsi della mano» e di aver sempre «avuto l’impressione che la mano dell’artista sia sopravvalutata». I suoi specchi, a differenza di quelli classici di altri artisti – dal Parmigianino a van Eyck, da Velasquez a Escher – non sono metafore dello sguardo. Tutto è specchio, perché tutto è cieco. L’invisibilità dello specchio è la non visibilità della realtà. Non c’è sapere, c’è solo l’esistere: piano di immanenza e non di riflessione.

Nel testo di Leoni l’opera di Kapoor è l’occasione per scendere in profondità nei vuoti ontologici all’interno della cultura, scarnificando ed entrando nella materia dal sapere sfruttando le inquietanti visioni di pelli scorticate e tese; un vuoto che, come un buco nero, continua ad attrarre studiosi di ogni genere ed esprime l’impossibilità di rivelare la realtà e il suo rapporto con la verità; una tensione che non si risolve mai tra sapere e realtà. E anche qui, quasi Hegelianamente, la struttura della conoscenza si dispiega in piani multipli di opposizione. La nozione di verità, per dire, sembra presupporre quella di falsità, ma trova poi una contrapposizione ancor più radicale, e metafisicamente irredimibile, con quella di realtà. Che cosa è il contrario di vero? È facile dire il falso, ma, più sotto, è il reale. Non il nero, non il riflesso, ma il rosso.

L’oggetto non è più ob-jectum, ovvero qualcosa che è posto di fronte a un osservatore che non esiste, ma una cosa che, come Leoni si diverte a ricordare, ha la sua radice etimologica nel latino causa; indica una presenza attiva e cioè «un’attività che produce conseguenze». Come nel Sofista di Platone, l’esistenza diventa azione. Ma non in noi, bensì in altre cose, altri oggetti nell’«eterno transitare degli oggetti gli uni negli altri, di trapassare ogni forza nel suo rovescio, dell’insistere degli opposti su quel confine che li distingue e li apparenta» perché «nello specchio kapooriano il sapere e il mondo vacillano».

Il libro di Leoni presenta il lavoro di Kapoor alla luce delle sue suggestioni e radici filosofiche, proponendo un caso ideale di arte come momento visibile del pensiero, spesso ben oltre le intenzioni dell’artista. Come in uno dei tanti gorghi e specchi dell’artista indiano, anche nelle sue pagine si aprono voragini che affascinano per la loro profondità e per l’impossibilità di scorgerne il fondo. Non è questo lo scopo di arte e filosofia?

Federico Leoni, Metafisica dello specchio. Anish Kapoor e la poesia delle superfici, Marsilio, Venezia 2023.

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