Un fiore, una chiave, un coltello. Poi (o forse venivano prima) un vialetto in mezzo a un giardino e una poltrona, metà d’una pagnotta e un letto disfatto circondato di tende svolazzanti. Anche un telefono e il braccio di un manichino. Tra queste poche cose, indecifrabili nella loro ingannevole anonimità, molte scale riprese di traverso a far da legame spaziale, e tutto ciò sotto lo sguardo di Maya Deren e Alexander Hackenschmied, registi e unici interpreti nel 1943 di un cortometraggio incantatorio e meravigliosamente criptico (tanto quanto quello dell’anno successivo, At Land, a partire dal quale lui si cambierà il cognome in Hammid). A ottant’anni dalla sua realizzazione Meshes of the Afternoon ancora turba, ancora attrae col magnetismo di un oggetto filmico non identificato, in cui si scoprono cose che si ritroveranno magari vent’anni dopo nel Bergman arcano de Il rito e L’ora del lupo.
I suddetti oggetti scandiscono l’ossessiva riproposizione di una catena di fatti all’apparenza semplicissima: una donna trova un fiore sul vialetto della propria villa (sembrano proprio le colline di Hollywood tanto care a Lynch), sale una scalinata per rientrare a casa rischiando di perdere la chiave, guardandosi intorno nel proprio salotto osserva un coltello conficcato in un pezzo di pane e un telefono scuro, monta al primo piano e si affaccia in camera da letto, dove il vento pare volerla trascinare giù dalla finestra. Ma nelle versioni successive di questi eventi la precede sul vialetto una misteriosa figura in nero con uno specchio al posto del volto, la stessa donna si ritrova circondata di copie conformi di se stessa, il suo uomo torna a casa e nel baciarla le infila una lama giù per la gola. Una serie di varianti e scomposizioni interviene ogni volta a impedire l’identificazione dei punti di vista, e infatti siamo di fronte ad alcune tra le soggettive più disturbanti nella storia del cinema: chi sta davvero spiando e chi sta davvero seguendo chi?
In Meshes of the Afternoon non va in scena una storia, ma la frantumazione di una psiche, e di conseguenza di uno sguardo, costretti entrambi ad errare tra i “reticoli” che intersecano, separandola in tasselli, la temporalità di un pomeriggio, a scoprire d’improvviso le minacce che, in quanto connaturate allo spazio domestico, lo squilibrano (esattamente a metà la macchina da presa si ribalta e vortica, come fosse a testa in giù). Oggetti familiari a tutti, e proprio per questo ancora più inquietanti, sono coinvolti in coreografie ipnotiche, a cominciare dalla chiave che più che rimbalzare levita sulle scale come fosse una piuma, metafora del rischio o addirittura del desiderio di perdere l’accesso alla mente femminile. I due autori recitano i pensieri dei personaggi, che inevitabilmente sconvolgono l’ordine della realtà, non i loro gesti e men che meno le parole, bandite dal tempo trasfigurato in cui si svolge o, meglio, si manifesta la filmografia spiritica e rigorosamente in bianco e nero (oltre che senza suoni) di Deren, nata a Kiev nel 1917 e morta a New York nel 1961. Filmografia che richiede anzitutto un abbandono indiscriminato, come in uno stato di trance – lo dimostra anche la musica da rito sciamanico composta per il film nel 1959 da Teiji Ito, sensibilmente influenzata dalle ricerche sul voodoo condotte insieme alla stessa Deren ad Haiti all’inizio degli anni Cinquanta – e che continua a ispirare meditazioni avanguardiste: prova ne sia la magia cosmica e fantasmatica di Suono In Un Tempo Trasfigurato, il disco di Francesca Bono e Vittoria Burattini uscito lo scorso febbraio per l’etichetta Maple Death, che ha attinto alle atmosfere oniriche e alla simbologia inquieta di altri tre cortometraggi di Deren (At Land, Ritual in a Transfigured Time, A Study in Coreography for Camera). Peccato manchi ancora in italiano, a differenza che in francese, tedesco e spagnolo, la traduzione dei suoi scritti sul cinema. Sarebbe ora di pretenderla (o di evocarla?).
Al pari di quanto avviene davanti all’opera negromantica e strobosferica di Kenneth Anger, ogni descrizione del cinema dereniano, fondato com’è sulla vocazione a scoprire forme di “possessione” delle immagini, finisce per rimanere in sospeso e ogni spiegazione risulta insoddisfacente: perché i pensieri recitati da Deren e Hackenschmied non hanno cominciamento e non hanno fine, anzi vengono continuamente risequenziati e risemantizzati in combinazioni virtualmente infinite, fino a che non subentra una morte – si può annegare anche nel proprio salotto – a spezzarli in frammenti non più ricomponibili (quelli dello specchio invaso dalle alghe nel finale). Come se il presente ragionamento si interrompesse ora, senza preavviso. Per poi ricominciare con una chiave, un coltello, un fiore, fino a interrompersi di nuovo, ma non per davvero e quindi ancora un coltello, un fiore, una chia…
Riferimenti bibliografici
M. Deren, Essential Deren. Collected Writings on Film by Maya Deren, McPherson & Co., Kingston 2005.
Id., I cavalieri divini del vudù, il Saggiatore, Milano 2018.
Meshes of the Afternoon. Regia: Maya Deren, Alexandr Hackenschmied; sceneggiatura: Maya Deren; montaggio: Maya Deren; interpreti: Maya Deren, Alexandr Hackenschmied; origine: Stati Uniti d’America; durata: 14′; anno: 1943.