L’Archivio Home Movies di Bologna da ormai vent’anni raccoglie e digitalizza filmini di famiglia provenienti da tutta Italia. Oggi per la prima volta, attraverso la piattaforma online Memoryscapes, ci restituisce circa un migliaio delle 30.000 pellicole totali. La schermata del sito si apre per il momento su due canali: il primo interamente dedicato all’Emilia Romagna, Lungo la via Emilia; il secondo, Cartoline italiane, esteso a tutta la penisola. L’utente ha tre scelte: cercare uno specifico luogo da cui vuole partire, scegliere un’annata (dagli anni ’30 agli anni ’80), oppure, la soluzione più intrigante, aprire una griglia di temi preparata dagli archivisti e pescare una parola che, tagliando trasversalmente il tempo e lo spazio geografico, lo fa piombare dentro una storia.
Memoryscapes, ideato e diretto da Paolo Simoni, ci fa fare esperienza dell’immagine d’archivio come, da spettatori, non l’abbiamo mai fatta: quei 20 secondi (massimo 90), quasi sempre muti, di ciascun frammento, ci presentano una materia grezza, che nessuno ha già lavorato per noi. Di fronte ai super8, alle inquadrature da 8/16/9,5 mm che scorrono silenziose sul nostro computer, ci rendiamo conto, con un po’ di disagio, che l’estetica contemporanea ci ha abituati a vedere quelle immagini in uno stato di rilocazione, attraverso il riuso del materiale di repertorio dentro un diverso orizzonte (un film di montaggio, un’installazione, lo stesso trailer che ci racconta il progetto). In questo caso ci sembra invece di essere catapultati su un ipotetico divano di una casa non nostra, a guardare i filmini di vacanze che non abbiamo fatto, di Natali che non abbiamo trascorso. Non siamo, in poche parole, “accomodati” nell’appropriazione a cui un secondo sguardo ha già provveduto al posto nostro. Vaghiamo in un limbo in cui quelle immagini non sono fatte per noi, eppure sono lì per noi.
D’altronde, dopo ore la nostra impressione rimane la stessa, e arriviamo così alla conclusione che Memoryscapes vuole ricordarci che Home Movies (come qualsiasi archivio) dopo aver raccontato l’intimità di uno sguardo e prima di riattivarsi in una disseminazione che lo porti altrove, corrisponde alla “terra di mezzo” del raccoglimento. I filmini che guardiamo vivono una fase provvisoria, sebbene essenziale, in cui tanto le rappresentazioni quanto il nostro ruolo di osservatori si riconoscono in una condizione di transizione, più che in un atto (mai definitivo) di significazione.
In qualità di “avventori di passaggio” vediamo scorrere il tempo nei visi di due fratelli ravennati che rompono le loro uova di Pasqua nel ’60 e poi nel’ 63; guardiamo partire l’ultimo tram di Bologna, assistiamo ad una abbondante nevicata a Sorrento, ad un’alba mozzafiato sulla spiaggia di Giulianova, alle “befane del vigile” anni ’50; un uomo (in un anno tra il ’35 e il ’40, come ci viene detto da chi ha catalogato le immagini) ci presenta via dei Fori Imperiali sullo sfondo muovendo le braccia come un presentatore di cabaret fa con il suo pubblico; dal bianco e nero degli idroplani che atterrano sull’acqua del Lago Maggiore nel ’29 (uno dei filmati più vecchi), passiamo ai colori sgargianti della moda anni ’70; dopo svariati battesimi e matrimoni, ci soffermiamo su immagini che intercettano quel “controcanto” della Storia — per usare un’espressione cara a Péter Forgács, pioniere nel riuso degli home movies— che in altri casi sembra restare in un indefinito fuori campo: la partenza per l’Etiopia dei soldati da Genova nel’ 38, un soldato regio ritratto nell’imminenza della Seconda guerra mondiale, arrivando poi alla Mille Miglia, ai Giri d’Italia, alle feste di liberazione e dell’Unità, fino al boom economico del ’60, i graffiti studenteschi del ’68 e le strade vuote dell’Austerity nel ’73.
Quasi tutti i filmini sono contrassegnati da un luogo e da una data precisi e da una lunga didascalia che li accompagna e ne descrive il contenuto (attraverso le parole dei cineamatori o di chi le ha archiviate). Arriviamo però ad un filmino che sembra sfuggire al canone di sistematizzazione del catalogo — all’“enunciato” che lo regola, potremmo dire con Foucault. Nessuna didascalia: solo un titolo, Gita a Erchie, e un anno, 1972. La sequenza dura 17 secondi e sembrerebbe girata al tramonto. La cinepresa inquadra per un momento il castello di Erchie sulla scogliera, poi scende lentamente sulla spiaggia e vediamo (da dietro e da lontano, come se chi filma si fosse nascosto per essere del tutto discreto) una giovane donna con in braccio un neonato. Sulla riva, vicino all’acqua, c’è una piccola culla rossa e la mamma, completamente sola sulla spiaggia, si sta dirigendo verso la culla per adagiarvi quello che supponiamo essere il figlio (o la figlia). La camera non va incontro al suo movimento e anzi lo supera a sinistra, lasciando il gesto incompiuto, appeso, lungo appena da imprimere nella nostra mente un’immagine serena, sfumata nei colori pastello della sera, e poi più niente. Un’ultima inquadratura sugli scogli che affiorano dall’acqua appena increspata, e il filmino si interrompe.
Per la prima volta, avvertiamo la sensazione di poterci appropriare di quello che ci scorre davanti. Cos’è a procurarci questa improvvisa sensazione di “familiarità” con la rappresentazione? Probabilmente il fatto che, in quel vuoto che lascia l’assenza della didascalia, sorge quell’“indicibile” che in una manciata di secondi aggancia la nostra partecipazione emotiva più di qualsiasi tentativo di definizione. Se l’immagine d’archivio è sempre in primo luogo traccia di una singolarità storica, evento già «tutto fuori» — prendendo in prestito un’espressione usata da Luca Venzi a proposito del cinema amatoriale e della vita «da sola», «senza nome», che lo riempie —, è anche simultaneamente la tensione verso un’espressione che da quella singola traccia cerca una linea di fuga che la proietti, pur preservando la sua identità, verso l’a-temporalità del suo piano simbolico. Della “gita a Erchie” a colpirci è la sospensione del tempo e l’interruzione di un gesto che la camera trapassa abbandonandolo dietro di sé, creando in pochi istanti un’atmosfera slegata da un qualsiasi evento e per questo svincolata dalla singola riproduzione (non a caso ci viene spontaneo far partire il video più di una volta, gustandone la ripetizione che, ad ogni “play”, fa rivivere quel momento ai nostri occhi). In altre parole, cogliamo di questo brevissimo squarcio di realtà il potenziale espressivo, più che la testimonianza del suo avvenire, elevando a un livello di maggiore astrazione il suo contenuto e, contemporaneamente, avvicinandolo alla nostra percezione.
Se anche quest’ultimo sembra un paradosso, è in effetti solo un’operazione di astrazione simbolica (che di fatto attua una qualsiasi forma di re-interpretazione filmica dell’archivio) a permetterci di disarchiviare le immagini altrui facendole scontrare con il nostro presente di spettatori. Nella sua essenza, un archivio resterà sempre “luogo di un’alterità”, spazio nomologico di «cominciamento» e di «comando» — ci dice Derrida a partire dalla definizione etimologica di archè — che codifica i materiali “consegnandoli” ad un sistema con il suo ordine originario e le sue gerarchie interne. Ma viaggiando dentro Memoryscapes, afferriamo delle immagini amatoriali ciò che di solito si cela dentro il dispositivo (filmico, laboratoriale, installativo) che le accoglie e le manomette: il conflitto tra singolarità storica e universalità di significato che già sempre contengono al loro interno.
La visione della spiaggia di Erchie (qui fa testo l’esperienza personale di chi scrive, è bene ricordarlo) attiva nello spettatore un’importante consapevolezza: muovendoci internamente all’archivio, in tutta la provvisorietà del suo contenere (più che mostrare) i materiali, ci accorgiamo che, dentro l’apparente stasi della loro conservazione, quelle immagini tendono verso un piano simbolico. È precisamente in quello “stazionare” in vista di un (eventuale) ricollocamento che vediamo apparire il loro intrinseco desiderio di essere qualcosa d’altro, tanto più potente quanto più ancora inappagato.
In questa chiave leggiamo diversi tentativi di “messa in scena” da parte degli stessi autori dei filmini che, durante le riprese o dopo, in fase di montaggio, pensano già la loro memoria come una possibile narrazione destinata ad un pubblico che ne apprezzi il valore simbolico, prima che quello reale.
Gli esempi sono tanti: l’immagine di un bambino che, durante una gita a Recanati nel ‘70, si sdraia sorridendo su una siepe (evocando evidentemente la soglia leopardiana de L’infinito); due donne in altalena a Rimini nel ’60, il cui movimento sinuoso viene accompagnato (caso rarissimo) da una musica aggiunta in “post-produzione” (il brano Romantica di Renato Rascel, vincitore a Sanremo quell’anno); il ralenti dei tuffi di una banda di amici a Capri nel ’54 o quello di un bambino che corre in discesa lungo le scale del Colosseo Quadrato a fine anni ’70 (tra le immagini esteticamente più potenti); o ancora una coppia che si filma seduta su una panchina nel ’65, producendo il primo “autoritratto” della propria storia d’amore, la suspense ricercata nel filmino di una donna in stazione che aspetta trepidante il suo compagno finalmente di ritorno a casa, una bambina che viene fatta correre sul viale alberato di una casa colonica guardando in macchina e che poi si ferma, ci fa la linguaccia, ride, ci punta il dito contro. Tanto i “registi” quanto gli “attori” delle pellicole acquisiscono una progressiva consapevolezza del mezzo e del potenziale comunicativo che possiede.
In alcuni casi sono invece le didascalie, ci rendiamo conto poco a poco, a tentare di costruire attraverso la parola un “eccesso” di significato, al fine di riformulare le sequenze amatoriali strutturandone la fruizione secondo una direttrice simbolica niente affatto intrinseca al loro contenuto. Da indicazioni di carattere formale si passa a interpretazioni “liriche” delle immagini: «La città vista dai bambini, filmata all’altezza dei loro occhi. Le due sorelle, vestite uguali, si muovono nella strada sotto casa e giocano a rincorrersi in un spazio che riempiono di immaginazione e poesia». Anche gli archivisti hanno sentito la necessità di riempire il silenzio assordante delle riprese (attutito in qualche caso dal rumore della pellicola che gira nella cinepresa) con frasi che interrogassero quelli che Marco Bertozzi definisce i «fattori esogeni» delle immagini. Un apparato concepito per informare del contenuto dei filmini si trasforma in un paratesto capace di dare forma alle immagini guidandoci nei loro aspetti formali e simbolici, liberando il “mostrativo” in un possibile “narrativo”.
Questo accade da un certo punto di vista anche nei titoli assegnati alle pellicole. Un caso particolarmente eloquente è un filmino del ’50 che ritrae due donne a Reggio Emilia che nervosamente sbattono i tacchi delle scarpe sulla strada come se aspettassero qualcuno, intitolato dagli archivisti Energia (e qui cadiamo davvero nella pura astrazione). E del resto lo stesso fenomeno si presenta, se ci pensiamo, nella scelta delle parole tematiche, a tutti gli effetti le strade maestre attraverso cui gli utenti cercano, trovano e “indagano” le immagini. Sotto la parola “mamma” troviamo ad esempio l’unico filmino in assoluto che ritrae un papà (probabilmente filmato dalla moglie), dandoci l’impressione di uno sguardo all’improvviso femminile sulla realtà (gli home movies sono al contrario spesso tacciati di essere un’espressione patriarcale della quotidianità).
C’è poi un’esperienza inversa. Può capitare che in passato lo spettatore abbia avuto la possibilità di vedere i cortometraggi contenuti in Formato ridotto. Libere riscritture di cinema amatoriale, altro interessante progetto di Home Movies che chiedeva a quattro scrittori (Enrico Brizzi, Ermanno Cavazzoni, Emidio Clementi, Ugo Cornia e Wu Ming 2) di elaborare testi originali da recitare su cinque rimontaggi dei repertori romagnoli dell’archivio. Su Memoryscapes sono stati raccolti diversi filmini del ’54 che ritraggono la scalata di alcuni alpinisti a Passo del Cerreto. Le stesse immagini comparivano nel corto di Brizzi in Formato ridotto, che raccontava, attraverso immagini altrui, l’innamoramento e il matrimonio di una coppia tra gli anni ’50 e ’60. Quando capitiamo su queste immagini per un momento ci sembra di conoscerle più delle altre, finalmente sollevati dal poterle riconnettere ad una storia con dei personaggi e delle peripezie che qualcuno un giorno ci ha raccontato. Subito dopo, tornati alla “realtà”, siamo gettati nel completo straniamento. Avevamo associato un’identità e un racconto al volto dello scalatore, e diventa molto difficile ammettere con noi stessi che quel ragazzo, filmato da tal Enrico Bagni, non sta sognando la sua “Irene” mentre arriva sulla vetta.
Quelle immagini, «create per essere irripetibili» (nel senso di private, frutto di specifiche memorie) — riprendendo la riflessione di Bertozzi — si trasformano in immagini «che si prestano a ripetere profili e ricordi altrui». Come il protagonista di Il volto sulla maschera di Sciascia nel cinema di Bercy, che guardando Il fu Mattia Pascal di L’Herbier ha l’impressione di «assistere a due proiezioni: una nella sua memoria, l’altra sullo schermo; e la prima che anticipa di qualche secondo l’altra», anche noi siamo portati a proiettare sul dato reale, e addirittura a far prevalere su di esso, una produzione della nostra immaginazione. Entrate in un orizzonte riconfigurativo che ce ne ha fatto afferrare il senso, è dura lasciar andare quelle immagini alla loro autentica identità. Eppure devono tornare ad essere necessariamente corpi evanescenti, a loro volta impronte fantasmatiche di un originale, destinate a non saturare mai il proprio tempo e a creare nello spettatore allucinazioni come quella appena descritta.
Memoryscapes definisce un aspetto radicale dell’“esperienza Home Movies”: il riconoscimento della natura bifida delle immagini d’archivio, indiscutibilmente radicate nello sguardo “di famiglia” (quello dei cineamatori che le hanno prodotte, ma anche della “compilazione” che le accoglie e le conserva), e allo stesso tempo proiettate dinamicamente verso un fuori che torni a mobilitarle (esteticamente, eticamente). Come se ognuno dei filmini avesse due teste: una introflessa verso la propria storia individuale, una estroflessa verso una problematizzazione che ne consideri il lato virtuale. Se attraverso altri progetti altrettanto riusciti — i due lungometraggi d’archivio, Circle (2016) e Il varco (2019), oltre a numerose iniziative e workshop “extracinematografici”, uno fra tutti Expanded Archive — vedevamo la “risoluzione” del tragitto, qui vediamo la lotta che le immagini compiono per conservarsi, e al contempo “superarsi”.
Quelli che si svolgono davanti ai nostri occhi sono racconti “minori” — direbbero Deleuze e Guattari — che sfuggono alle voci “dei maestri” per fondersi alla creatività collettiva, fungendo da «primi ingranaggi» di infiniti, sempre nuovi, concatenamenti.
Un concatenamento ha sempre una linea di fuga attraverso la quale anch’esso fugge e fa filare le sue enunciazioni o espressioni che si disarticolano al pari dei suoi contenuti, che si deformano o subiscono una metamorfosi; o ancora, e siamo sempre allo stesso punto, il concatenamento si estende o penetra in un campo di immanenza illimitato che fa fondere i segmenti, che libera il desiderio di tutte le sue concrezioni e astrazioni, o almeno lotta accanitamente contro di sé, per dissolverle (Deleuze, Guattari, 2017 p. 149).
D’altra parte sempre Deleuze, confontandosi con il «nuovo archivista» Foucault, parla della «curva» (quella delle regole archiviali) all’interno delle quali le singolarità (nel nostro caso filmiche) si riproducono, come di una curva che sfiora queste ultime distribuendole in uno spazio rarefatto in continua rigenerazione, in cui ciascun soggetto occupa un posto variabile.
Di questo doppio movimento, al contempo conservatore e apocrifo, delle iscrizioni archiviali, “il cinema privato online” ci dà definitivamente contezza. Il compito di noi tutti, davanti al reticolo tematico di Memoryscapes, è quello di scegliere il varco giusto per incontrare immagini non nostre, ma di cui siamo chiamati a testimoniare attivamente lo sforzo di resistere, in attesa di balenare altrove.
Riferimenti bibliografici
AA. VV., “Fata Morgana”, Archivio, n. 2, 2007.
M. Bertozzi, Recycled cinema. Immagini perdute, visioni ritrovate, Marsilio, Venezia 2012.
Id., Documentario come arte. Riuso, performance, autobiografia nell’esperienza del cinema contemporaneo, Marsilio, Venezia 2018.
G. Deleuze, Foucault, Orthotes Editrice, Salerno 2018.
G. Deleuze, F. Guattari, Per una letteratura minore, Quodlibet, Macerata 2010.
A. Maiello, L’archivio in rete. Estetica e nuove tecnologie, goWare, 2015.
L. Sciascia, Il volto sulla maschera, Mondadori, Milano 1980.
L. Venzi, Comparse, passanti, avventure dello spettatore, in “Fata Morgana”, Evento, n. 38, 2019.