Due sono le mostre italiane che hanno celebrato e celebreranno ancora, entrambe fino a gennaio 2018, l’opera del regista e teorico russo S.M. Ejzenštejn (1898-1948) nel centenario della rivoluzione di ottobre: Sergei Eisenstein: the Anthropology of Rhythm all’interno della fondazione Nomas a Roma, curata da Marie Rebecchi ed Elena Vogman con la collaborazione dell’artista e grafico Till Gathmann, e Ejzenštejn – La rivoluzione delle immagini nelle Sale di Levante degli Uffizi a Firenze, in cui per la prima volta si affaccia “la settima arte”, curata da Marzia Faietti, Pierluca Nardoni e il direttore della galleria Eike Schmidt.
La mostra a Nomas si apre con una “mappatura” dei viaggi fisici e intellettuali di Ejzenštejn che stravolge lo spazio-tempo della cartografia classica in favore di una condensazione non lineare di luoghi e date, volta a rappresentare più intimamente quello spostamento trasformativo, mutevole trasferimento in nuove dimensioni, caratteristico del pensiero del regista. La mostra degli Uffizi si apre con la proiezione di singole inquadrature di visi, gesti, dettagli tratti da Sciopero (1924), La corazzata Potëmkin (1925) e La linea generale (1929) in un percorso che, appare subito evidente, vuole condurre in una progressione lineare che dalla singola cellula compositiva accompagni, nella sua messa in movimento e dunque in rapporto con altre unità, a diversi livelli di complessità.
È subito chiaro dunque lo scarto tra i due progetti, votati entrambi a riportare alla luce e alla rielaborazione dello spettatore contemporaneo tracce di una storia importante, per l’evoluzione delle forme espressive e per il contesto politico in cui nasce e si sviluppa: la prima (Nomas) accoglie già dentro la sua forma espositiva quella costante metamorfosi estatica che racconta attraverso il ritmo dei suoi materiali, la seconda (Uffizi) – meno tecnica e di carattere dichiaratamente più divulgativo – pone una resistenza formale alle tracce che raccoglie, imponendogli una direzione scandita in tappe precise. Entrambe, e in ciò risiede il punto di contatto più forte, assegnano un ruolo di spicco al lavoro grafico del regista, raccogliendo nelle proprie sale numerosi disegni schizzati con un tratto essenziale di impressionante efficacia e pulizia da Ejzenštejn, che dialoga con i suoi film attraverso queste sintetiche linee e l’automatico flusso di idee che esse emanano.
Partendo da Firenze, il visitatore di Ejzenštejn – La rivoluzione delle immagini è assorbito dai 72 disegni arrivati nelle bacheche direttamente dall’Archivio Statale di Letteratura e Arte di Mosca, che manifestano fin da subito l’esplicita intenzione di risuonare con l’arte italiana del tardo Medioevo e della rifioritura rinascimentale del tratto, repentina giustificazione del luogo in cui si è scelto di esporre, anche come tributo ad un Ejzenštejn che costantemente lamentava la sua mancata visita alla Galleria degli Uffizi. In particolare, l’attenzione si focalizza su La battaglia di San Romano di Paolo Uccello (1438), che in uno dei filmati proiettati irrompe con le sue lance colorate a fianco delle lunghe armi in bianco e nero dell’Aleksandr Nevskij (1938), e sul complesso groviglio umano dell’Adorazione dei Magi di Leonardo da Vinci (1481-1482), amata dal regista non solo per l’articolata disposizione nello spazio che incarna ma anche per la sua incompiutezza, che avvicina le parti ancora grezze del dipinto ai vuoti strappati con violenza all’opera del regista. Quei vuoti della pellicola confiscata e poi incendiata de Il prato di Bežin (1935) i cui fotogrammi vediamo rimontati assieme ad alcune fotografie di scena negli anni ’60 da Naum Klejman (specialista di Ejzenštejn e direttore dell’Eisenstein Center) e da S.I. Jutkevič, giungendo, a tratti, ad una parziale illusione di un movimento ormai perduto; ma anche i vuoti di quel Que Viva Mexico! (1931) mai potuto montare dal regista di cui vediamo agli Uffizi alcune scene nella versione di Aleksandrov.
Con il sottofondo delle note di Prokof’ev, si svelano dinanzi a noi nelle diverse sale fogli e fogli di idee: dalle strisce cinematiche raffiguranti lunghe code di accurate caricature in fila indiana (nello stile della Fantasia Disney della Rhapsody in Blue di Gershwin) alle figure mitiche (Apollo, Dioniso, le tre Parche allegoria del taglio di montaggio) dal sapore spesso orientaleggiante; dalle stigmate attraverso le quali le sempre doppie figure dei riquadri instaurano una potente connessione ai limiti dell’erotismo, ai nudi femminili di ispirazione messicana in cui è possibile rintracciare l’immaginario proprio di pittori come Matisse e Cézanne. Ma soprattutto, nell’ultima sala, l’incredibile serie dei Gedanken fur Musik (Pensieri sulla Musica): studio grafico del montaggio “verticale” tra rappresentazione e linea superiore del sonoro (a far scaturire un’unica, asincronica, immagine sintetica nella coscienza dello spettatore), il tratto in cui il regista individua la componente musicale (spesso di un diverso colore) segue il soggetto della rappresentazione focalizzando i punti di intersezione dell’azione, geometrizzando gli spazi, tracciando protensioni e ritenzioni delle figure e proporzionandone l’intrinseca temporalità. Molte sono scene di battaglia, in cui è un cavallo blu sullo sfondo sovrapposto ai combattenti a donare profondità alla scena, quella “quarta dimensione” del tempo che aggiunta alle tre spaziali si dipana nelle curve della dinamica del gesto e nei più duri segmenti dell’intenzionalità dei personaggi che gli danno vita.
Nella mostra di Roma, i primi materiali che incontriamo all’interno di una bacheca sono un testo del ’22 di Lucien Lévy-Bruhl, La mentalité primitive, e alcuni studi su gesto e linguaggio del linguista russo Nikolaj Marr (che scrisse una prefazione del testo appena citato e che Ejzenštejn menziona spesso nei suoi scritti a proposito della sua collaborazione con L.S. Vygotskij e della sua spiccata propensione ad una “polifonia del discorso” durante le sue lezioni), del quale vediamo affisse alle pareti anche alcune fotografie scattate in Georgia a figure femminili e ad opere in costruzione (che forse involontariamente ci riportano a quell’”opera in muratura” metafora di sovrapposizione asimmetrica nelle pagine sul montaggio di Ejzenštejn). Già questo primo “angolo” dell’esposizione viene a patti con un visitatore che comprende la veste multiforme di un cammino che si farà sempre più denso: da base a tutte le scelte, la scelta di annunciare già nel titolo della mostra una ricerca “antropologica” nella sua urgenza di incarnare un’inversione, una regressione, un ritorno alle radici che (esattamente come nel periodo messicano del regista russo) significhi anche sovversione, ri-volta di un essere umano che si riscopre e ri-volgimento con questo delle forme in cui si oggettiva (come è spiegato nel bel catalogo della mostra).
A fare da catalizzatore a questo senso costante di trasformazione, è un ritmo che guida l’uscita da sé e l’ingresso in qualcosa di ulteriore, variamente rappresentabile e rappresentato, delineato già solo nella rotazione di un volto o di tutto un corpo danzante che sovverte i punti di riferimento spazio-temporali e si ricompone in un nuovo equilibrio. A rendere il senso di questa perenne messa in discussione e mutevolezza della forma, due progetti incompiuti continuano a tessere questa matassa di pensiero: le bozze (scritte e disegnate) del Grande Canale di Fergana (1939) che avrebbe dovuto raccontare la mastodontica opera sovietica attraverso una narrazione strutturata “a trittico” (per rievocare la pittura rinascimentale), con un’estensione temporale che andava dal conquistatore Tamerlano sino agli anni del comunismo; e ancora una volta Il prato di Bežin, in questo caso però rappresentato attraverso un montaggio (di Elena Vogman e dell’artista Clemens Von Wedemeyer) dei ritratti usati per i provini del film (i cosiddetti tipazh), in cui, ben lontani dall’identikit poliziesco, le figure, di diverse età e provenienze sociali, ci si presentano come mobili, in fase di creazione (come la foto del bambino che il commento di Ejzenštejn, “5 years old – Marxist”, muove e ancora una volta stra-volge).
Un corridoio ricco di stampe di disegni ci guida in un sorprendente flusso di immagini: dal mito di Prometeo sbranato da un’aquila che gli si insinua feroce nella carne, a figure umane che si “tagliano” vicendevolmente, uscendo materialmente da un vestito di pelle che appendono e condiscono con sale e pepe; dalle celebri croci che definiscono il movimento estatico e spiraliforme del decomporsi per ricomporsi sempre in nuova, ulteriore unità, al formidabile schizzo sull’uomo che affonda un arto nell’acqua uterina, regredendo lì dove tutto potenzialmente può ancora accadere. Fino ad arrivare alla serie, erotica e cannibalica, sulla figura di Salomè e a quella sottile e ironica sulla riproducibilità tecnica resa attraverso Cristo e il velo della Veronica sul quale viene impresso il suo volto: un velo “autografato”, che diventa in uno dei disegni quasi “fotocopia”, una delle tante riproduzioni dell’immagine primigenia.
Così, passando per le influenze parigine della rivista Documents (1929-1930) e di un Georges Bataille visto come pensatore “gnostico” e per quelle messicane dei Mexican Folkways accompagnate dalla fotografia di Tina Modotti e dalla fotografia sulle forme primordiali (“protoplasmatiche”) di Jean Painlevé, si arriva all’ultima sala in cui è proiettato un assemblaggio di Marie Rebecchi degli “scarti” di Que Viva Mexico!, operato secondo una divisione in ampie aree tematiche che segue la morfologia di un gesto reiterato (come nel caso delle parate in stile Riefenstahl o del lavoro operaio di risonanza vertoviana); su un’altra parete nella stessa sala è proiettata una selezione dei materiali del documentario messicano assemblati nel 1955 (dopo che Upton Sinclair donò i materiali al MoMA di New York) da un allievo di Ejzenštejn, Jay Leyda, che scelse di rinunciare ad un montaggio creativo in nome di una ricostruzione filologica di ordine piuttosto “cronologico” (la versione proiettata viene dall’archivio russo Gosfilmofond).
Nel saggio intitolato La forma cinematografica: problemi nuovi Ejzenštejn, riprendendo uno studio di Lévy-Bruhl, dedica una pagina intera ai diversi modi di esprimere l’azione del “camminare” presso la tribù dei Klamath: sfruttando questo esempio il regista descrive la necessità di un attore di sapersi calare, a partire da un’indicazione generale su un tipo di movimento espressivo da parte del regista, nelle variazioni specifiche di quel movimento, nelle sue sfumature. Solo una volta che la sua comprensione lo “rimanda con un lampo all’indietro a un’intera massa di casi particolari”, l’attore saprà come interpretare dinamicamente ciò che gli è stato chiesto. Ridotta all’osso, questa affermazione implica una memoria che si fa memoria (“con un lampo all’indietro”) proprio e solo nell’atto di frammentarsi in possibilità; non è memoria che associa generalizzando e incarnandosi in un concetto astratto, è piuttosto memoria che ridiscende in terra disarticolandosi in alternative concrete e simultanee. Una memoria che, nelle parole di Sergej in uno dei suoi infiniti appunti, è “rimembranza della sua stessa disgregazione”.
La mostra di Rebecchi e Vogman, è una mostra che, forse rischiando di essere più ostile alla comprensione del pubblico, osa mettere in forma la memoria di Ejzenštejn proprio in quella carnale discontinuità in cui questa, per recuperare se stessa, si abbandona alla variazione, alla ripetizione, alla migrazione, al sovrapporre lasciando sussistere ogni più piccola singolarità più che al raccogliere e all’ordinare. La mostra di Faietti, Nardoni e Schmidt è una mostra che, al contrario, fa la scelta teorica di “arrotolare” la memoria in sezioni ben distinte più che “srotolarla” in declinazioni compresenti: fa dunque un lavoro di associazione, in cerca di una linearità meno ardua (ma anche meno striata e metamorfica) che si conclude nel delizioso video di Artiom Sopin in cui vediamo (finalmente in movimento!) un Ejzenštejn-Charlot che si nasconde dietro un soffione e ridendo fa cucù mentre spunta al di sopra del quotidiano olandese De Telegraaf.