Torneremo a mangiare le mele, cioè a realizzare l’umanità dei nostri desideri. È questa in sintesi la morale che colloca Mele del greco Christos Nikou (passato ad “Orizzonti”) in una sfera ampia di anticipazione artistica del nostro presente. Uomini soli, senza memoria, che rispondono a indicazioni emesse da medici a cui è affidato il programma di recupero sociale di tali soggetti. Un uomo di mezza età è tra questi. Non si ricorda più chi sia, e non viene cercato da nessuno.

Entrare nel programma significa rispondere agli input trasmessi attraverso l’invio di audiocassette di cui l’uomo deve dare attestazione di corretta esecuzione attraverso delle polaroid che scatta e colloca in un album, periodicamente controllato dagli operatori del programma di recupero sanitario (psichiatrico) e sociale. Guidare a distanza la vita delle persone attraverso la mediazione di una tecnologia, sia pur desueta, è un atto rilevante. Le attività da svolgere sono sia ordinarie (andare in bicicletta o al cinema) sia segnate da potenziali shock emotivi (andare a sbattere con l’auto contro un albero, tuffarsi da dieci metri).

Tra le attività prescritte c’è ballare, incontrare una ragazza e anche fare sesso occasionale, senza impegno. L’uomo incontrerà una giovane donna, senza memoria e senza conoscenti, esattamente nella sua stessa condizione. Tra i due sembra scattare qualcosa, che significa scartare dal programma. Ma quando lei, dopo essere usciti insieme, lo invita durante una serata in un locale a fare sesso nei bagni, scopriamo subito dopo che questo invito era anche per lei la risposta ad un comando rieducativo. L’improvviso slancio dell’uomo si spegne, e si nega ad ulteriori tentativi di contatto da parte di lei.

È un mondo distopico quello che ci viene presentato, dove l’insularizzazione sociale diffusa sembra poter essere superata solo programmaticamente, dall’attuazione di dispositivi d’azione. Nessuno spazio per la contingenza. Anche se il volto dell’uomo, i suoi gesti, la prossimità dello sguardo della macchina da presa, restituiscono tratti inalienabili di umanità. Il film percorre questo spazio enigmatico di ambivalenza tra il dispotico dell’azione telecomandata e capillarmente controllata e l’umanità di volti, corpi, sguardi. Un’umanità che trova il suo momento massimo di espressione in una scena di ballo in discoteca, quando l’uomo supera la sua timidezza, osservando la ragazza ballare con altri, e si lancia in pista sotto lo sguardo ammirato di lei.

Questa ambivalenza tra ciò che i personaggi fanno (corrispondendo ad un programma) e ciò che sono viene sciolta quando all’interno del programma stesso si apre uno squarcio. Si tratta di assistere un malato terminale e accompagnarlo negli ultimi giorni di vita fino al funerale. Nella camera d’ospedale, davanti al sentimento di prossimità della morte, l’uomo risponde, al vecchio morente che gli chiede se è sposato, di essere vedovo, di aver perso da poco la moglie.

Questo squarcio di memoria e questa risposta anticipano quello che vedremo subito dopo. L’uomo andrà prima con un mazzo di fiori sulla tomba della moglie e poi tornerà finalmente nella sua propria casa forzando la serratura. Metterà a posto il vestito da sposa della moglie appeso ad un armadio (come non ricordarsi una analoga immagine in Anghelopulos?) e si andrà a sedere sul divano in mezzo ad un disordine diffuso, nella situazione che avevamo visto ad inizio film. Ma ora inizierà a riordinare. E finirà mangiando una mela, il frutto da lui tanto amato, a cui per un momento aveva rinunciato, sapendo che tra le sue proprietà benefiche c’è il “rafforzamento della memoria”.

Mele non è solo un film sul trauma della morte (della moglie) e sul suo superamento tornando all’origine del trauma stesso, partecipando cioè al funerale del vecchio; e non è solo un film sul legame indissolubile tra memoria ed identità (entrambi gli aspetti definiscono il tratto “umanista” del film).

Mele è un film su qualcosa che ci riguarda molto da vicino, cioè sulla immaginazione di una vita in comune fondata sulla costruzione di dispositivi psico-sociali in cui la fragilità e il dolore individuali diventano lo sfondo in cui l’azione programmata da un potere anonimo opera una socializzazione obbligata, codificata e controllata. Da tale socializzazione negativa, da tale mondo distopico, ed è questo il finale positivo e commedico del film (che l’autore stesso definisce una “commedia drammatica allegorica”), si può generare un ritorno alla tessitura dell’identità individuale e del suo desiderio. Il desiderio tutto umano di tornare a mangiare una mela.

Mele. Regia: Christos Nikou; sceneggiatura: Christos Nikou, Stavros Raptis; montaggio: Giorgos Zafeiris; musica: The Boy; interpreti: Aris Servetalis, Sofia Georgovasili, Anna Kalaitzidou, Argyris Bakirtzis; produzione: Boo productions (Iraklis Mavroeidis, Angelo Venetis, Nikos Smpiliris, Aris Dagios, Christos Nikou), Lava Films (Mariusz Wlodarski), Perfo Production (Ales Pavlin, Andrej Stritof); distribuzione:  Virginie Devesa, Keiko Funato – Alpha Violet; origine: Grecia; durata: 90’.

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