Dopo Antigone, Kafka, Marylin, Spartakus, Giordano Bruno, Pinocchio, Lucrezio e Rosa Parks la galleria di eroi destituenti allestita dalla rivista K. è arrivata a Medea, una figura apicale che fa impallidire tutte le altre. Nessuno ha disertato in modo più radicale di lei: sfida le leggi sacre del suo paese d’origine, la Colchide, e quelle razionali della Grecia, chiude nel modo più crudele i rapporti con la sua famiglia d’origine facendo a pezzi il fratello, con i propri nemici uccidendo il re di Corinto che l’ha condannata all’esilio e la figlia promessa sposa a Giasone, e con il sangue del proprio sangue portando a compimento il più efferato dei delitti, quello che la identifica: l’uccisione dei figli.

«Medea distrugge tutto: la casa del padre, il legame con il fratello, il potere di Corinto e la legge degli uomini. Ma fa persino di più: destituisce persino la sua tragedia» si legge nell’editoriale del numero. «Rifiuta infatti in ogni momento della sua vicenda il ruolo della vittima e di volta in volta impiega e abbandona sia il logos, sia la mera passione distruttiva, sia le complicità e simpatie che è in grado di suscitare»: è questa peculiare capacità di sfuggire a qualsiasi cattura opportunistica, a qualsiasi affiliazione strumentale, che ha attratto gli autori di K.. La storia di Medea, comunque venga raccontata, è un antidoto all’empatia: non può rientrare in nessuna rassicurante narrazione sulle ragazze ribelli, oltrepassa ogni limite accettabile dalle correnti più oltranziste del femminismo, ma anche delle teorie postcoloniali più radicali, non offre nessuna sponda consolatoria, non può essere usata per dimostrare alcunché di positivo. Non a caso il titolo del numero è Medea e la lacerazione della cura.

Quello che il mito di Medea mette in chiaro senza mezzi termini è che il desiderio e la cura sono politicamente incompatibili. Si può naturalmente desiderare, a livello personale, di essere curati (è un desiderio molto comune) ed è possibile desiderare di curare (anche se è un genere di desiderio assai meno diffuso, soprattutto sul lungo periodo), ma è folle pretendere di attribuire un desiderio del genere a una qualsiasi forma di collettività. Medea è la prima voce nella letteratura che si leva per fare piazza pulita dell’associazione “naturale” tra donna e cura: dopo una lunga tirata sull’infelice subalternità delle donne al maschio padrone e sul claustrofobico confinamento tra le mura domestiche, ridicolizza l’idea stessa della protezione dal pericolo: «Dicono di noi che viviamo al sicuro dentro casa, mentre loro combattono in battaglia. Sono pazzi! Vorrei piuttosto trovarmi tre volte in prima linea che partorire anche una volta sola!». Insomma, non può esistere nessun safe space in cui conciliare pacificamente la matrice rischiosa, gerarchica, ambigua che informa il desiderio e la chiarezza etica, l’orgoglio altruistico, l’integrità morale richieste dalla cura: l’una nega l’altro e viceversa, ed è solamente attraverso il conflitto perenne tra di loro che si possono incontrare in un qualche precario equilibrio. E questo vale per le donne, ma anche per qualsiasi altro raggruppamento sociale, dalla più piccola comunità alla più tecnocratica organizzazione.

Il coro e la nutrice, messi a parte del disegno di Medea di uccidere i propri figli, non fanno che ripeterle di rinunciare alla vendetta efferata, di accettare il destino di esule scornata, di scegliere il male minore per il bene di tutti (gli altri) e per salvaguardare il proprio ideale ruolo materno, benché materialmente mutilato dall’inevitabile separazione dell’esilio. Pur considerandola, empaticamente, una vittima del vile tradimento di Giasone, cercano di educarla al senso di responsabilità, al calcolo dei costi e dei benefici, al risparmio del dolore inutile, alla resa ai rapporti di forza esistenti. «Amore che giunge smisurato né gloria né virtù procura agli uomini; se Cipride giunge con misura, non c’è divinità che sia altrettanto dolce. Contro di me, signora, dall’arco dorato non scagliare mai la tua freccia infallibile intinta nel desiderio. Mi protegga la moderazione, il dono più bello degli dei».

Nulla di più estraneo a Medea, nipote del Sole, maga in possesso di poteri e saperi eccezionali che usa senza alcun risparmio per l’oggetto del proprio desiderio, Giasone. «Nessuno deve considerarmi un’incapace o una debole o una persona mite. Altro è il mio carattere: violenta con i nemici e con gli amici buona». Proprio in virtù di questa sua piena agency, Medea è in grado di abbandonarsi senza alcun timore al desiderio, luogo dell’incognito, del dubbio, del conflitto che – nella lucida visione di Elisa Cuter, nel libro Ripartire dal desiderio – «È un processo creativo, espansivo, produttivo, una riserva negativa che ha un suo valore politico proprio fintantoché è totalmente estraneo alle norme di buona condotta della morale e ai calcoli del capitale». E quando la frustrazione si abbatte su di lei, Medea non ha altra priorità che quella di ristabilire agli occhi del mondo la propria potenza. Nessun trauma può relegarla in uno stato di minorità, non c’è legge, sacra o profana, che possa costringerla ad auto-confinarsi nel ruolo di vittima impotente, perché l’impotenza espone al ridicolo, anzi alla derisione, l’unica cosa che teme. «Voglio suscitare il riso dei miei nemici, lasciandoli impuniti?» si ripete Medea per non tentennare di fronte all’attuazione del suo piano di “terrorismo antifamiliare”, come lo chiama Alain Brossat nel suo saggio Medée, où est ta victoire?.

In effetti con l’infanticidio il pericolo del riso è scongiurato. La rivoluzione è compiuta, a opera di una figura del tutto estranea alla polis, che non è possibile assimilare né emarginare. «Dopo la decisione senza ritorno di Medea, Corinto è travolta da un uragano di sangue e desolazione: il potere è decapitato. La sua distruzione, però, ed è questa una traccia fondamentale che probabilmente è Euripide per primo a inserire, implica anche una forma di auto-distruzione; insomma, non c’è rivoluzione che non imponga un conto salatissimo da pagare. D’altronde, se non fosse così, non ci sarebbe per la donna della Colchide una vera posta in gioco: squarciare il potere degli uomini. Qualsiasi rivoluzione degna di questo nome, infatti, richiede la perdita di ciò che è nostro; dell’oikos, del privato; prevede che chi la lascia deflagrare muoia almeno un po’ insieme al mondo che sta sotterrando. Secondo Pierandrea Amato l’invenzione dell’infanticidio ha una forza destituente talmente assoluta da eccedere lo stesso controllo di Euripide sul testo tragico, portandolo fuori da quella dimensione prosaica e dall’ideologia della polis che caratterizza le sue altre tragedie.

Il mito di Medea resiste all’identificazione del cittadino, resta opaco nonostante la lucidità linguistica, non è addomesticabile. Fa apparire “esagerata”, ipotizza Amato, persino la critica nietzschiana contenuta nella Nascita della tragedia: anche se la Medea di Euripide esprime ragionamenti articolati, se la raffinatezza e la logica delle sue argomentazioni rispondono a codici letterari e filosofici lontani dall’estasi dionisiaca e dalla tensione propria dei cicli di Eschilo e Sofocle, è difficile leggere nel testo una mitigazione o un depotenziamento del pathos. Lungi dall’appiattire la narrazione su uno scenario assimilabile al quotidiano, Euripide dispiega un allucinato immaginario horror, connotato inizialmente dallo smembramento del fratello e in un crescendo di violenza dalla disgregazione dei corpi della principessa di Corinto e di suo padre Creonte, sciolti e sformati dal fuoco del veleno e della magia di Medea. La quale diventa, nell’interpretazione di Camille Paglia (in un celebre passaggio di Sexual Personae), portatrice del disordine ctonio nel regno della forma apollinea, dissolutrice dell’integrità dei corpi e dei contorni.

Per come la configura Euripide, Medea è inattualizzabile. Persino il bellissimo film di Pasolini, nonostante il sublime dei paesaggi e della Callas, sembra in confronto un esercizio un po’ schematico nella contrapposizione a lui cara tra la potenza del mondo arcaico, rituale, barbaro ma vitale (Medea, ma anche, didascalicamente, i paesi africani decolonizzati) e la miseria simbolica delle società desacralizzate. Romeo Castellucci, intervistato da K., esprime a più riprese il proprio scetticismo nei confronti di questo genere di operazione.

E questo è il dono di Medea: considerare l’abisso. È stupido giudicare Medea con la ragione – certe messe in scena straordinariamente superficiali “attualizzano” questi personaggi –, per quanto il suo crimine sia osceno. […] Non risolve nulla il teatro, non lo ha mai fatto. Non opera sul piano della realtà. È stupido, anzi, peggio, è naïf pensare che il teatro possa avere una presa diretta sulla società. L’attivismo a teatro, o l’attualizzazione, il commento a ciò che succede intorno a noi è pretenzioso, opportunistico e interessato. Moralista. La politica del teatro esiste, certo, ma si trova su un piano ineffabile. Io so che il teatro è politico, ma tutto ciò ha a che fare con la solitudine – l’opera d’arte più grande è quella che ti fa sentire solo –. Ognuno poi la pensa come vuole, si può pensare anche a un effetto sociale del teatro, se interessa. Io lo trovo consolatorio, stereotipato e condiscendente.

Medea e la lacerazione della cura, a cura di Pierandrea Amato e Luca Salza, “K. Revue trans-européenne de philosophie et arts”, n. 8, 2022.

Tags     Donna, K. Revue, Medea, Tragedia
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