Al Teatro greco di Siracusa in occasione della 58ª stagione dell’Istituto Nazionale del Dramma Antico sono risuonate energiche le parole del mito e i due i nuclei problematici intorno ai quali Euripide ha voluto circoscrivere la parabola di Medea: da un lato il divario culturale tra lei e la grecità, tra un “prima”, rappresentato dalla terra natale, la Colchide, e un “dopo” che sarà l’Atene di Egeo, con, al centro, la città di Corinto a rappresentare il punto di rottura. Dall’altro l’abbandono e il tradimento – vissuto come conseguenza del suo essere donna e straniera – da parte di chi, dopo averla condotta in quella città, la lascia per un’altra donna. A partire da ciò la regia di Federico Tiezzi imposta la tragedia «non come una rappresaglia individuale ma come uno scontro fra due diverse concezioni della forza» (Tiezzi 2023), consegnandoci una Medea che vibra di modernità. Del resto è nota la visionarietà pittorica tipica delle sue regie, atta a marcare la riflessione sul linguaggio della scena, in cui l’azione non si concretizza in un tempo “reale”, ma diventa memoria, (ri)vissuta.

Il prologo sinfonico corale commissionato da Tiezzi a Silvia Colasanti porta in primo piano la violenza subita dai figli, a cui si lega l’abisso di Medea che in proscenio sogna il mondo del prima. La salvezza di Giasone e l’arrivo in Grecia hanno richiesto un prezzo da pagare, un delitto compiuto da Medea stessa, che è, in sé stesso, negazione di ogni presunta razionalità. In questo “prima” troviamo la chiave per comprendere il lavoro di lettura del mito di Tiezzi: «nella Colchidela Colchide della storia e della mentesi può finalmente contemplare la violenza come qualcosa che appartiene all’ordine naturale delle cose» (Tiezzi 2023, p. 15).

La Patria – luogo arcaico e tribale – la cui raffigurazione rimanda a quella cinematografica che ne fece Pasolini, è per Tiezzi «terra del rimorso» (citando Ernesto De Martino; ivi, p. 15), dell’inconscio. L’assassinio di Medea viene visto come un «big-bang» (ivi, p. 15), e lei, barbara e straniera, personaggio riprovevole nell’immaginario collettivo ci porta, comunque, a empatizzare con il suo destino, sebbene si tratti di un’«empatia negativa» (Ercolino, Fusillo 2022). A convincere è soprattutto l’intensità dei tre ampi monologhi in cui la maga dà spazio e voce ai suoi conflitti interiori.

Anche Giasone, rileggendo Euripide, è incarnazione di una violenza «neocapitalista» (ivi, p. 15) nutrita di inutili e ipocriti miti e di falsi valori in via di decadenza e di dissolvimento; di una logica “ragionevole” secondo la quale è la donna a dover apparire come “debole”, vittima sacrificale di una società pragmatica e materialistica. E quando affiora la crisi del rapporto tra Medea e Giasone, della relazione maschio-femmina che è alla base della riflessione dell’autore, non ci sarà più spazio che per le Furie. Al sopruso simbolico, psicologico, Medea risponderà con una violenza vera, trasformandosi essa stessa in campo di battaglia.

Un ragionamento certo non nuovo, che si rinnova però grazie anche alla traduzione di Massimo Fusillo e al suo personale «corpo a corpo con il testo» (Fusillo 2023, p.74), in cui ha potuto mettere a frutto tutto il suo background di filologo e comparatista attento alle rimediazioni dei temi narrativi in Medea: «Quello che mi aveva colpito a suo tempo da lettore e da studioso, e che mi ha colpito ancor di più da traduttore, è la capacità di Euripide di intrecciare la rappresentazioni di passioni brucianti e (auto)distruttive con un freddo rigore analitico» (ivi, p.74). Medea appare come un eroe omerico (volutamente mascolinizzato, per Helene Foley), che, pur perdendo inizialmente la contesa del logos prima con Creonte e poi con Giasone, alla fine sfodera proprio le loro armi e usa parole a cui, sia il re della città sia l’eroe, non possono opporsi. È così che Medea, restituita alla sua genealogia orientale, riconsegna a sé stessa la sua immagine, da gynê a parthenos.

La messa in scena di Tiezzi contamina il testo tragico con atmosfere da dramma moderno borghese, e così –partendo dallo studio di carattere su Medea – arriva a raccontarci conflitti a noi contemporanei: la violenza tangibile delle passioni e dei corpi, e quella “simbolica” e disumana della legge. La distanza che intercorre tra la Norvegia della fine del secolo romantico e la Corinto del V secolo avanti Cristo diviene segno pieno grazie alla funzione-ponte della scenografia e dei costumi, coerenti con l’orientamento registico elaborato da Tiezzi. La scena, firmata da Marco Rossi – immersa nei colori pastello dell’alba o del giorno, e solo alla fine rossa del sangue del tramonto – si impone elegantemente sul vasto spazio circolare dell’orchestra tracciando interni d’abitazione moderna, disegnati da esili strutture geometriche di forma cubica sottolineati da neon (il disegno luci è di Gianni Pollini). L’abitazione di Medea è un appartamento tanto lussuoso quanto vuoto nel suo falso decoro, certamente lontano dalle atmosfere ibseniane di quella casa di bambola «confortevole, arredata con molto buon gusto ma senza lusso».

Sontuosi anche i costumi di Giovanna Buzzi, tutti virati sui toni dell’azzurro, del bianco, del grigio e del nero: Medea (Laura Marinoni) indossa un abito piumato e porta una maschera d’uccello, simbolo di inafferrabile libertà e di nostalgico legame con la sua terra; Creonte (Roberto Latini) e i suoi guardaspalle vestono abiti scuri e maschere d’ipocriti e voraci coccodrilli-neocapitalisti; i figli di Medea portano invece maschere fanciullesche di coniglietti, e appaiono da subito come le vittime predestinate. Un ricorso trasgressivo al mascheramento che richiama alla memoria la dissacrazione nietzschiana del soggetto autonomo e borghese. Su tutti si staglia il bianco dell’abito indossato da un dandy Egeo (Luigi Tabita), con cappello panama sul capo, che allude a un’altra mascolinità, fluida, intermittente, affatto diversa da quella vigliacca e cinica di Giasone (Alessandro Averone) che, in abiti borghesi moderni, con cravatta e soprabito scuro, incarna lo status di conquistatore del Vello d’oro e prossimo signore di Corinto.

La paradossale coesistenza di stilemi distanti tra loro è la chiave di volta di una regia carica di intuizioni e di felici contrappunti. Marinoni è l’”asse” dello spettacolo, la sua è una Medea elegante e ferrigna, non estranea al turbamento, ricca di contraddizioni e di accenti. La fisicità del rapporto con Giasone richiama alcune sequenze della Medea di Lars von Trier, in una catena di significazioni remote e a tratti inaccessibili.

Accanto a lei, espressiva ed essenziale è l’interpretazione di tutti gli altri attori e attrici. Se Alessandro Averone riesce a dare credibilità e profondità a Giasone, Roberto Latini dà corpo e voce a un Creonte «grottesco», perché tale è il potere che incarna; Debora Zuin è una Nutrice dal forte accento slavo, foriero di identità in transito, mentre Francesca Ciocchetti, prima corifea, diventa una sorta di confidente di Medea; Sandra Toffalati, nei panni del Messaggero, distilla fatti e misfatti con timbro sicuro e controllato. A render ancor più fremente l’atmosfera dello spettacolo è il Coro delle donne di Corinto, votato all’alleanza con Medea, diviso certo fra le ragioni della colpa e del lutto ma capace di piangere le stesse lacrime della protagonista.

Nella sua progressione fatale verso il baratro dell’infanticidio, la regia di Tiezzi giunge a distillare momenti di grande suggestione: è quel che accade quando il pianto straziante dei figli viene coperto dal Gretchen am Spinnrade, un Lied musicato da Schubert, tratto dal Faust di Goethe, in una sorta di messa in abisso che toglie il respiro. Dopo l’apparizione di Medea sul carro del sole (una gru sopra un carrello forse al limite del kitsch) il regista restituisce al Coro delle donne di Corinto un peso scenico inedito, proponendo l’affannosa e inutile pulizia delle stigmate del decoro del Palazzo: le donne, chine a terra, con i loro stracci tingono il pavimento del sangue versato, dando concretezza all’orrore di fronte a un Giasone impotente. Qui il tempo della tragedia sembra azzerarsi, per lasciar spazio alla banalità del male.

Riferimenti bibliografici
A. Rodio, Le Argonautiche, traduzione di G. Paduano e M. Fusillo, BUR, Milano 2018.
Euripide, Medea, a cura di M. G. Ciani, Marsilio, Venezia 2022.
F. Tiezzi, Il nome della madre, in Medea. Catalogo ufficiale della 58ª stagione dell’Istituto Nazionale del Dramma Antico al teatro greco di Siracusa, 2023.
M. Fusillo, Medea, in Medea, Catalogo ufficiale della 58ª stagione dell’Istituto Nazionale del Dramma Antico al teatro greco di Siracusa, 2023.
H. Foley, Medea’s Divided Self, vol. 8, n. 1, University of California Press, 1989.

Medea. Regia: Federico Tiezzi; Traduzione: Massimo Fusillo; Scene: Marco Rossi; Costumi: Giovanna Buzzi; Disegno luci: Gianni Pollini; Maestro del coro: Francesca Della Monica; Arrangiatore coro e voci: Ernani Maletta; Regista assistente: Giovanni Scandella; Musiche originali coro e prologo: Silvia Colasanti (con la collaborazione del Coro di voci bianche del Teatro dell’Opera di Roma); Assistente scenografo: Francesca Sgariboldi; Assistente costumista: Ambra Schumacher; Assistenti arrangiamenti coro e voci: William Caruso; Direttore di scena: Nanni Ragusa; Assistente direttore di scena: Dario Castro; Personaggi e interpreti: Medea: Laura Marinoni; Giasone: Alessandro Averone; Creonte: Roberto Latini; Egeo: Luigi Tabita; Nutrice: Debora Zuin; Pedagogo: Riccardo Livermore; Il Nunzio: Sandra Toffolatti; Prima Corifea: Francesca Ciocchetti; Prima Coreuta: Simonetta Cartia; Anno: 2023

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