Imparare a vivere si presenta già dal titolo come un’impresa ai limiti dell’impossibile. Definire i margini dell’obiettivo risulta, a un primo sguardo, estremamente difficile. Cosa vuol dire, infatti, imparare a vivere? Imparare a stare al mondo, seguendo il codice di comportamento adatto al contesto, che sia il galateo o un qualche codice malavitoso? Oppure imparare a prendersi cura della propria salute? O, ancora, vuol dire imparare ad apprezzare quel po’ di tempo che abbiamo? E, nel caso, come farlo?
Partendo da una caduta e la conseguente frattura dell’omero sinistro, Ferraris ci conduce in un viaggio che prova a districarsi fra le infinite possibili domande prodotte da un compito tanto necessario quanto complesso, ammesso che esista realmente un modo per definirlo. Ma, come dice lo stesso filosofo: «Il pensiero fondamentale del recensore [consiste] nel dire se la trama e l’esecuzione artistica siano felici o infelici, riuscite o non riuscite. Non importa che l’oggetto della narrazione esista o meno» (Ferraris 2024, p. 36). È dunque con questo spirito che sembra necessario approcciarsi al testo.
Non è un caso che il viaggio inizi da una caduta, dalla sperimentazione radicale della propria caducità, punto di partenza della riflessione affrontata da Ferraris con una penna che riesce a gestire con abilità i passaggi più pensosi e complessi grazie a una sapiente capacità di sdrammatizzare. Proprio in virtù di quest’ultima, il testo dimostra quanto, al contrario, sia possibile prendere sul serio il tentativo di comprendere come imparare a vivere, o quantomeno provarci. Il tentativo attraversa quattro stazioni (Vivere, Sopravvivere, Previvere, Convivere) ed è guidato da un principio inderogabile: l’incertezza, «probabilmente l’unica lezione certa che la vita mi ha dato» (ivi, p. 20). In questo passaggio vediamo il duplice registro – profondo e ironico, riflessivo e scanzonato – su cui spesso si muove il filosofo torinese, che sembra volerci consegnare una lezione di vita da “vecchio saggio” nella veste di una riedizione ironica del paradosso del mentitore di Eubulide di Mileto.
La proposta iniziale assume così dei tratti più definiti: non abbiamo fra le mani un manuale sul vivere bene, un galateo o simili, poiché l’obiettivo non è imparare a vivere bene, ma riflettere riguardo alla possibilità stessa di imparare propriamente a vivere, in base alla propria vita. Ma qual è l’oggetto del vivere se il termine stesso include un duplice, inscindibile, significato? Vita è infatti un termine collegato tanto alla natura organica in generale, quanto alla condizione dell’animo umano, a «quell’impasto di corpo, anima, abitudini, gusti e disgusti, attese e ricordi, che riempiono le nostre giornate» (ivi, p. 17).
Da questa prospettiva, imparare a vivere diviene un agire necessario, poiché durante la nostra vita non facciamo sostanzialmente altro. Dall’infanzia alla senescenza impariamo a vivere il nostro ambiente e la nostra condizione umana, plasmandola e plasmandoci in un processo che si interrompe solo con la morte. E dunque, il richiamo a una “vita autentica” sembra lontano da una presupposta naturalità originaria, anzi sembra proprio il risultato di tale accidentato apprendere a coniugare la vita biologica con la vita di second’ordine che caratterizza gli esseri umani: la tecnica. Qui il riferimento è a tutto l’apparato di registrazione, che dall’incisione di una tacca su un bastone in epoca preistorica conduce all’intelligenza artificiale. In questa lunghissima storia – basata sul tenere traccia di eventi o inventarne di nuovi – che conduce alla definizione di una «seconda natura» tecnologica, c’è un aspetto su cui il filosofo si concentra in maniera particolare, la narrazione: «La vita vera è intessuta in modo inestricabile con il racconto, l’invenzione, la vita finta» (ivi, p. 34). In quanto umani, necessariamente ci raccontiamo delle storie e teniamo traccia degli eventi rilevanti.
Tali tracce nutrono l’illusione umana di poter «sopravvivere» (seconda stazione), consegnando qualcosa di se stessi al futuro oltre la morte biologica (e in parte è così, ma non è che una magra consolazione). Le generazioni a venire «impareranno a vivere» partendo anche da quelle tracce, all’interno di un humus organico e tecnico, naturale e artificiale, vero e inventato. È bene sottolineare che tali tracce non sono strettamente materiali, ma comprendono anche la sfera immateriale su cui si fonda l’orizzonte comune che definiamo società e cultura.
È su questo aspetto che si concentra anche la terza stazione: durante l’età giovanile impariamo a «previvere» infatti, soprattutto imitando le narrazioni del passato. In questa fase Ferraris sancisce una sorta di personale distacco definitivo da Proust, autentica ossessione in gioventù, attraversandone la lettura in maniera serrata soltanto per superarla nell’approdo alla quarta stazione, il «convivere» del presente, fondato sulle relazioni con gli altri esseri umani: “La felicità è autentica solo se condivisa”, per parafrasare Chris McCandless di Into the Wild. Ma per condividere qualcosa è necessario uno sfondo comune, una cultura condivisa che ci riconnette con il passato, con tutto l’apparato di «sopravvivenze» che riceviamo soprattutto grazie alla scrittura. Questa è l’autentica protagonista del testo, in un innamoramento che a tratti Ferraris prova a nascondere soltanto per affermare la necessità di rivolgere l’attenzione all’orizzonte delle relazioni umane.
Il valore inestimabile del convivere è il lascito principale che l’autore vuole consegnarci, proponendo una sorta di trascendenza mondana: un ritorno sulla terra e al presente dopo aver superato tanto la vana speranza di rimanere immortali (o almeno sopravvivere) nella trascendenza della scrittura, quanto quella di imparare a «previvere» da un manuale pronto all’uso, quanto ancora la speranza di “resurrezione” insita nel tentare di riparare le cose. Queste non si aggiustano mai completamente perché non possono risorgere, un piatto sbeccato resta tale, così come un omero fratturato può rimarginarsi ma serberà per sempre il segno del trauma.
L’epilogo è intriso di una lucida, flebile speranza “messianica” guidata dalle piccole e grandi “rinascite” che viviamo quotidianamente, sospinte dalla forza di una seppur minima progettualità che spinge ad agire nell’orizzonte comune. Questo nella consapevolezza, più o meno esplicita, del fatto che il nostro tempo è irrimediabilmente limitato. E le varie stazioni sembrano proprio testimoniare tanto lo sforzo quanto l’illusione umana di poter fare i conti con tale limitatezza: «Anche se il tempo che resta sembra sempre meno, e lo sembra perché lo è, resta l’immane promessa e potenza del progetto, che è tanto più forte quanto più è urgente proprio perché non c’è più tempo» (ivi, p. 107).
Da questo viaggio, al contempo greve e leggero, leggiamo un Ferraris diverso dal filosofo accademico, ma non per questo meno efficace, in una scrittura che ci accoglie nelle sue riflessioni (a volte quasi delle confidenze) e, al contempo, ci invita a riflettere tanto delle nostre piccole “morti” quanto delle piccole “rinascite” quotidiane che compongono l’accidentato percorso per «imparare a vivere».
Maurizio Ferraris, Imparare a vivere, Laterza, Bari-Roma 2024.