Tragedia o farsa? È questa la prima domanda che il nuovo Morpheus pone all’incredulo Thomas Anderson/Keanu Reeves subito dopo essere stato refreshato in un giovane corpo digitale. Pertanto, citando la celebre frase di Marx (ripresa più volte da Žižek nelle sue recenti riflessioni) Matrix Resurrection è evidentemente consapevole di riattraversare in chiave farsesca la gigantesca galassia di segni che l’epopea neo-classica di Neo ha sedimentato in più di vent’anni. E allora, questa “resurrezione” del 2022 ha le carte in regola per rinverdire l’incubo cyberpunk capace di riscrivere molti miti del passato (da Alice nel paese delle meraviglie a Neuromante, dalle metafore cristologiche a quelle edipiche) creando un nuovo immaginario? Oppure deve diventarne per forza di cose l’autoriflessiva variazione su meme come il coevo Don’t Look Up?

Tutte domande che Lana Wachowski (questa volta in regia solitaria senza la sorella Lilly) si pone dentro e fuori il film: nella nuova realtà simulata dalla matrice – qualcosa deve essere andato storto nella pace tra Neo e le macchine siglata alla fine di Matrix Revolutions – le immagini del film capostipite diventano la nostra memoria mediale balenando nelle soggettive di nuovi personaggi in cerca di vecchie identità. E che posto ha la trilogia di Matrix in questo nuovo presente simulato? Non più una famosissima saga di film bensì di videogiochi. Una trilogia videoludica creata dal game designer Thomas Anderson (un Keanu Reeves impacciato e agghindato esattamente come John Wick: il riferimento a un multiverso che fa idealmente dialogare le due saghe è sin troppo evidente) che non ha la minima voglia di accettare la proposta della Warner Bros (!) di produrre un quarto capitolo. Ma questo geniale programmatore che ha influenzato l’immaginario degli ultimi decenni (“il migliore della sua generazione”, si dice più volte) ha anche tentazioni suicide e costanti visioni alterative della realtà sedate ambiguamente dal suo psicanalista novello “architetto”.

Insomma, qual è la verità? Thomas Anderson sta diventando uno schizofrenico che ha bisogno di pillole blu per tenere a bada la sua fervida fantasia autodistruttiva, oppure è ancora L’Eletto che può ridestarsi attraverso una pillola rossa squarciando il baccello organico in cui siamo tutti confinati dalle macchine? Per rispondere a questa domanda l’unica strada percorribile è quella di ri-attraversare il museo del nostro immaginario in un dilatatissimo déjà vu. In perfetta sintonia con la fantascienza del nuovo millennio – da Ready Player One a Star Wars, per arrivare a Blade Runner 2049sono solo gli archivi audiovisivi del passato a certificare un’identità. Le icone auratiche della cultura di massa dissotterrate dalla nostra memoria (da Rick Deckard a Luke Skywalker a Neo) tornano per testimoniare una loro ontologica ambiguità referenziale custodendo il segreto del cinema in nuovi ambienti mediali dove ogni immagine è ben consapevole di essere una copia/replicante senza origine. Pertanto: se l’universo cyberpunk e distopico di Blade Runner o Matrix celava una carica utopica seminale per gli immaginari futuri, i loro sequel contemporanei sembrano raggelati in una inevitabile retrotopia e destinati a far resuscitare corpi-icona del passato per riattivare un’ultima possibile esperienza estetica e sentimentale.

In una sequenza paradigmatica in tal senso il mito-Neo viene scortato dai giovani ribelli in una sala cinematografica dove è stato allestito un set identico alla famosissima scena della scelta delle pillole. Ma se nel 1999 il Morpheus/umano rivelava ogni ambigua potenza delle nuove immagini con la celebre battuta “benvenuto nel deserto del reale”, il Morpheus/ologramma del 2022 si limita a declamare ironicamente il riciclo vintage di quegli stessi segni: “Non c’è niente di meglio di un po’ di nostalgia per curare l’ansia”. Thomas Anderson viene così spronato a riacquisire l’identità di Neo mentre i primi piani del giovane Keanu Reeves nel 1999 scorrono su un grande schermo squarciato in un movie theater decadente e abbandonato. Insomma, non c’è tanto da interpretare. È il film stesso a offrirci in maniera cristallina ogni chiave ermeneutica arrivando addirittura a chiamare la navicella dei ribelli Mnemosyne (e che cosa si sta cercando, del resto, se non l’energia originaria del cinema per riattivare una memoria nella realtà aumentata del XXI secolo?).

Da questo punto di vista i primi 45 minuti di Resurrections sono veramente il punto di non ritorno del metacinema. Lo slittamento immaginario del ruolo di Neo da inafferrabile hacker che fa emergere il Reale nei simulacri a vecchio game designer totalmente incapace di interpretare le immagini videoludiche che ha codificato, segna un lucidissimo scarto tra la condizione mediale del 1999 (le fobie di un salto di paradigma in atto ma anche l’eccitazione per le potenzialità del cyberspazio) e quella post-mediale del 2022 (la totale naturalizzazione dell’esperienza della tecnica ma anche la tendenziale impossibilità di immaginare un futuro fuori dalle “matrici”).

Il film, pertanto, sovverte ogni iperstizione profetizzata nel primo capitolo umanizzando definitivamente il percorso dei protagonisti: l’amore atemporale tra Neo e Trinity diventa l’unica dimensione tangibile per riconoscersi. Da Cloud Atlas (2012) a Jupiter Ascending (2015), del resto, il discorso politico e identitario portato avanti dalle sorelle Wachowski ha sperimentato una libertà espressiva sempre più coraggiosa e visionaria arrivando pian piano a sfumare ogni metafora tecnoetica nella (in)visibile connessione spirituale tra le persone: la programmazione e il controllo delle matrici virtuali si superano con il Sense8 (per citare la magnifica serie prodotta qualche anno fa, forse la loro opera più radicale).

Certo, in Matrix Resurrections il pamphlet farsesco sulla società dello spettacolo divenuta Realtà Virtuale h24 si ingolfa nel faticoso tentativo di riallacciare ogni filo narrativo con la vecchia trilogia. I lunghissimi (e un po’ farraginosi) monologhi sul destino di Zion e sull’attuale IO, sui nuovi poteri della matrice e sulla centralità di Trinity, nascondono però la tragedia di un personaggio/Eletto anestetizzato e incapace di riattivare pathos e azione in un universo mediale che ha perso ogni “credenza” nelle immagini. Ecco, si fa ormai fatica a credere all’esistenza di un oracolo, alla pericolosità di Mr. Smith o alle acrobazie in bullet time che vengono più volte ridicolizzate dagli stessi personaggi. La saga di Matrix abdica consapevolmente dal suo compito di svelare nuovi orizzonti alla sci-fi o nuovi standard di messa in scena all’action movie per ragionare in maniera spudoratamente autoriflessiva su cosa il cinema hollywoodiano possa ancora dire in un immaginario sempre più pre-ordinato da logiche algoritmiche e interattive.

Insomma, in questo teorico azzeramento di ogni linea d’azione il quarto capitolo di Matrix si pone in diretta antitesi rispetto al primo film del 1999 deludendo fatalmente molte attese ma riuscendo ancora a stimolare un’interessantissima riflessione critica sulla contemporaneità. Tragedia o farsa? Sorprendentemente Resurrections e Dont’ Look Up, usciti a pochi giorni di distanza (sul grande schermo e sui piccoli display di popolarissime piattaforme), operano riflessioni non dissimili sulla nostra società dell’informazione globale: i due stralunati protagonisti, in ultima analisi, cercano solo di sospendere il flusso continuo e virale dei dati per tornare a immaginare flebili scarti di (cinema) futuro.

Matrix Resurrections. Regia: Lana Wachowski; sceneggiatura: Lana Wachowski, David Mitchell, Aleksandar Hemon; produttore: Lana Wachowski, Grant Hill, James McTeigue; fotografia: John Toll, Daniele Massaccesi; montaggio: Joseph Jet Sally; costumi: Lindsay Pugh; interpreti: Keanu Reeves, Carrie-Anne Moss, Yahya Abdul-Mateen II, Jessica Henwick; produzione: Warner Bros. Pictures, Village Roadshow Pictures, Venus Castina Productions; distribuzione: Warner Bros.; origine: Stati Uniti; anno: 2021; durata: 148′.

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