Maggio 2019. Sono passati vent’anni dall’uscita in sala di Matrix di Lana e Lilly Wachowski. E sembra ieri che, a lezione, con i nostri studenti, Matrix era il cinema contemporaneo: con le sue tensioni, la sua estetica, i suoi topoi. Poi, qualcosa è cambiato. Nella percezione degli studenti, Matrix è via via sfumato, o si è gradualmente affiancato ad altri titoli, perdendo in parte quella “esemplarità” che sembrava inalterabile. Ma nella percezione della mia generazione, la rilevanza strategica di Matrix non è mai venuta meno, e Matrix ha continuato a essere (anacronisticamente) un film attuale per la sua capacità di incorporare una transizione, vissuta in prima persona, non solo tra “paradigmi” diversi del sistema cinematografico (nei suoi aspetti industriali, culturali, sociali), ma anche, e forse soprattutto, tra “paradigmi” diversi nei film e media studies. Ed è questa la prospettiva che in queste brevi note mi interessa di più approfondire, a partire dal contesto italiano.

Sette anni dopo Matrix esce, in Italia, il volume Matrix: Uno studio di caso, curato da Guglielmo Pescatore. L’interesse nei confronti delle relazioni che si vanno configurando tra cinema ed ecosistema mediale è senz’altro prioritario nel volume. «Matrix», scrive Guglielmo Pescatore nell’introduzione, «al di là dell’aspetto estetico, è senza dubbio un film rilevante nella storia del cinema recente, che ci dice sicuramente qualcosa sull’andamento e sul funzionamento del cinema rispetto al sistema dei media» (Pescatore 2006, p. 2).

Eppure, per definire le interazioni e la collocazione di Matrix rispetto al più ampio ecosistema mediale si ricorre sostanzialmente a concetti già radicati negli studi sul cinema: paratestualità, intertestualità, intermedialità, seppure emerga a tratti un’inadeguatezza di tali nozioni rispetto a ciò che si sta osservando, o quanto meno la necessità di problematizzarle. Quello che soprattutto colpisce oggi, in questi tentativi di definire la particolarità di Matrix nel più ampio scenario dei media, è la pressoché totale assenza dei concetti di convergenza culturale e di transmedia storytelling proposti da Henry Jenkins (2007), che proprio in Matrix trovano un ambito di applicazione ed esemplificazione in qualche modo emblematico e che tanto successo avranno negli studi sul cinema negli anni immediatamente successivi, assurgendo a vero e proprio canone del cinema contemporaneo.

Dicevamo che il volume esce nel 2006: lo stesso anno, dunque, in cui Jenkins pubblica il suo Convergence Culture, tradotto in italiano l’anno successivo. Matrix: Uno studio di caso mostra dunque con grande chiarezza, se osservato retrospettivamente, l’aggregarsi di una serie di interessi di ricerca che avrebbero costituito un terreno fertilissimo per il diffondersi degli studi di Jenkins, allora ancora pressoché sconosciuti nella comunità italiana ma destinati a imporsi in maniera rapida e pervasiva.

Tuttavia, e qui sta l’elemento di maggiore interesse, la linea di indagine “pre-jenkinsiana” non è l’unica a essere evidenziata e valorizzata nell’introduzione a Matrix: Uno studio di caso. Una ulteriore e significativa motivazione dell’interesse nei confronti di Matrix è infatti individuata nella capacità del film di fare «riferimento a una serie di problemi filosofico-politici di interesse collettivo» (ivi, p. 1) che Pescatore, seguendo l’impostazione del volume curato da Massimiliano Lorenzo Capuccio due anni prima (Dentro la matrice. Filosofia, scienza e spiritualità in Matrix), organizza intorno a quattro fondamentali temi filosofici: lo statuto ontologico della realtà e la veridicità dell’esperienza e della percezione; la relazione tra mente e corpo; il ruolo della tecnica; la questione degli universi virtuali.

Certo, rispetto agli studi di ambito filosofico che l’hanno preceduto, Matrix: Uno studio di caso è molto attento a precisare e distinguere la peculiarità del proprio approccio: le implicazioni filosofiche di Matrix non sono, per così dire, interessanti di per sé, ma lo divengono se andiamo a guardare come i molteplici riferimenti filosofici vengono usati e amalgamati ad altri elementi eterogenei della cultura popolare, in un blockbuster spettacolare che è stato in grado di generare un “volume interpretativo” di straordinaria portata – ci basti ricordare The Matrix and Philosophy: Welcome to the Desert of the Real (2002) curato da William Irwin (2002), Taking the Red Pill: Science, Philosophy, and Religion in The Matrix (2003) curato da Gleen Yeffeth (2003), e infine Benvenuti nel deserto del reale (2002) di Slavoj Žižek.

Ma al di là dello specifico delle problematiche filosofiche evocate, quello che soprattutto ci interessa trattenere è la percezione della rilevanza sociale di Matrix e, più in generale, del cinema all’interno dei discorsi sociali: proprio a partire da tale rilevanza si può ancora, e forse si deve, attribuire al cinema una peculiare capacità di “messa in forma”, elaborazione e anche ridefinizione di istanze e spunti che circolano all’interno di questi stessi discorsi. Il volume Matrix: Uno studio di caso ci mostra dunque come, pur in un momento di cambiamento profondo del panorama mediale e degli studi sul cinema, al film (in senso lato) venga ancora attribuita una rilevanza culturale, nel senso di una centralità nei processi e nei discorsi che organizzano la nostra cultura, tale da rendere possibili e anzi auspicabili approcci analitici che ne discutano le più ampie implicazioni a livello sociale – e finanche filosofico.

Negli anni successivi, le cose sono profondamente cambiate. Altri film (basti pensare a titoli come Source Code, 2011; Shutter Island, 2010; Inception, 2010; Cloud Atlas, 2012; Oblivion, 2013) hanno ripreso e rielaborato gli spunti filosofici di Matrix: lo statuto ontologico della realtà e l’esistenza di molteplici universi, la veridicità dell’esperienza e della percezione, le relazioni tra mente, corpo e tecnologia. Al cinema si è aggiunta la serialità televisiva, da Lost (2004-2010) a Black Mirror (2011-), da Heroes (2006-2010) a Osmosis (2019-), da Fringe (2008-2013) ad Altered Carbon (2018-).

Ma nessuno tra questi titoli è riuscito a produrre un “volume interpretativo” paragonabile a quello generato da Matrix. È banale constatare come Source Code, ancora meglio di Matrix, suggerisca e anzi quasi direttamente illustri il celebre saggio di Hilary Putnam Cervelli in una vasca: ciononostante, tale “illustrazione” non ha praticamente destato nessun interesse. Tuttavia, lo ribadiamo, anche a prescindere dagli spunti più propriamente filosofici, è la rilevanza culturale del film, o più ampiamente del prodotto audiovisivo, che sembra radicalmente messa in discussione. In termini di rilevanza socio-culturale, è indubbio che la serialità televisiva abbia progressivamente e inesorabilmente sottratto terreno al cinema, ma non possiamo non notare la rapida obsolescenza della grande maggioranza delle narrazioni televisive e, forse, l’ancora precario processo di “istituzionalizzazione” dei discorsi che le accompagnano e attraversano: chi si ricorda, oggi, di una serie come The Fringe, che dieci anni fa ci era parsa indimenticabile?

Che cosa, dunque, è cambiato? La risposta non può essere univoca. Potrebbe darsi, molto banalmente, che i film e le serie in questione siano meno “interessanti” (in un senso volutamente generico) del loro antecedente di fine anni novanta (o antecedenti, perché a Matrix potremmo aggiungere film come eXistenZ, 1999; The Truman Show, 1998; Dark City, 1998), meno capaci di operare attivamente nel circuito dei discorsi sociali, estraendone e rilanciandone spunti e stimoli. Ma questa risposta è, appunto, piuttosto banale, e assai poco soddisfacente.

Potremmo allora provare a cercare una spiegazione nei mutamenti che hanno profondamente attraversato il contesto mediale e hanno alterato, di conseguenza, anche la “rilevanza culturale” del racconto audiovisivo e più specificatamente del cinema: nel nuovo scenario, osservava Francesco Casetti in L’occhio del Novecento «il cinema non ritrova più, o almeno nella stessa maniera, le misure su cui ha così ben lavorato. Dunque non può più operare le stesse mediazioni. […] La negoziazione tocca ad altri media»(Casetti 2005, p. 294) come  televisione, Internet, smartphone e tablet. Dunque, mentre Matrix si collocherebbe sulla soglia di questi mutamenti, film come Source Code o Inception ne mostrerebbero la piena realizzazione.

C’è, ancora, un’altra possibilità: a essere mutato, insieme al ruolo del cinema nel panorama mediale e nella rete dei discorsi sociali, è anche lo sguardo sul cinema, la prospettiva da cui si osservano il cinema e i processi di riposizionamento (o rilocazione) a cui è soggetto, con il risultato che determinate problematiche e linee di ricerca divengono progressivamente minoritarie.

A ben guardare, forse le due cose non si possono scindere: i mutamenti di prospettiva rispondono, o corrispondono, a mutamenti degli oggetti di indagine, ma fanno a loro volta mutare ciò che siamo in grado di vedere, o ciò che troviamo interessante, negli oggetti che indaghiamo, e che di fatto non “esistono” al di fuori dell’indagine e della prospettiva che la fonda. Come scrive Frank Kermode in Il senso della fine: «Se cambiano le finzioni […] cambia anche il mondo; di pari passo» (Kermode 2004, p. 39).

Riferimenti bibliografici
M.L. Cappuccio, a cura di, Dentro la matrice. Filosofia, scienza e spiritualità in Matrix, Albo Versorio, Milano 2004.
F. Casetti, L’occhio del Novecento. Cinema, esperienza, modernità, Bompiani, Milano 2005.
H. Jenkins, Cultura convergente, Apogeo, Milano 2007.
F. Kermode, Il senso della fine. Studi sulla teoria del romanzo, Sansoni, Milano 2004.
G. Pescatore, a cura di, Matrix: Uno studio di caso, Hybris, Bologna 2006.
V. Re, A. Cinquegrani, L’innesto. Realtà e finzioni da Matrix a 1Q84, Mimesis 2014.

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