Tutti i semi sono falliti eccettuato uno,
che non so cosa sia, ma che probabilmente è un fiore e non un’erbaccia.

Le più diverse contingenze storiche, dalla crisi economica del 2008 alla pandemia, nel contesto di fenomeni più generali come la fine del marxismo, la trasformazione neoliberale delle società contemporanee e l’emergenza ecologica, hanno fatto sorgere il bisogno di ripensare non tanto lo statuto della politica, con le sue organizzazioni e le sue finalità, quanto le modalità stesse in cui oggi sono solite svolgersi le nostre vite. Si potrebbe parlare di una politicizzazione della vita (come resistenza ai dispositivi biopolitici), oppure di una nuova declinazione della politica, centrata ora attorno al problema delle «forme di vita».

Per qualche tempo, si è potuto credere che questa declinazione etica della politica costituisse una sorta di neutralizzazione del conflitto. Non ci si era avveduti del fatto che il richiamo all’etica, con la riproposizione delle sue domande fondamentali, implicava semmai l’esigenza di una radicalizzazione della politica, ovvero di una rottura con la politica come gestione del potere o arte di governo (Rancière 2017), l’esigenza di una politica che tornasse a domandarsi che cos’è la vita, a chiedersi secondo quali modalità pensarla senza travisarne la natura, secondo quali forme viverla affinché essa possa esprimere la propria potenza invece di costringerla in abitudini che la avvelenano e la corrompono.

Del resto, se si prendono sul serio le considerazioni di Max Weber sull’origine del capitalismo, non potrà stupire che le prospettive radicali di chi mira a mettere fine alla formazione sociale capitalistica implichino anche un questionamento di carattere etico. Se è vero che la costituzione del capitalismo non è stata solo un affare di accumulazione primitiva, di produzione forzata di lavoratori «liberi», destinati a vendere la propria forza-lavoro sul mercato valorizzando così il capitale proprietario, ma ha fatto leva anche su una concezione della vita e più precisamente su un’etica del lavoro, allora anche la via d’uscita dal capitalismo dovrà implicare non solo la distruzione del rapporto di sottomissione del lavoro al capitale, ma anche un’altra concezione dell’esistenza, delle sue condizioni, della sua natura e del suo esercizio.

È in questo contesto e a questo livello che interviene il lavoro dello studioso svedese Mårten Björk, The Politics of Immortality. Il libro è costituito sostanzialmente da tre monografie, dedicate a Franz Rosenzweig, Karl Barth e Oskar Goldberg (ai quali Björk, nella tesi di dottorato di cui il libro è una rielaborazione, aggiungeva uno studio su Erik Peterson), tenute assieme da un filo conduttore che costituisce la vera motivazione filosofica del testo: il rapporto tra concezione della vita e politica. Focalizzando la propria attenzione sul periodo tra le due guerre mondiali (il sottotitolo del libro suona: Theology and Resistance Between 1914 and 1945),  Björk mostra come sia proprio in un’epoca di catastrofi che gli autori convocati formulano una visione della vita fondata non, come ci si potrebbe attendere, sulla percezione della sua fragilità, della vulnerabilità caratteristica degli organismi viventi soggetti alla nascita, alla sofferenza e alla morte, ma sull’idea della sua destinazione immortale. Il libro intende elaborare, attraverso Rosenzweig, Barth e Goldberg, una concezione dell’esistenza che non riduca la vita alla sua sostanza biologica, al suo esser situata tra il nulla di prima della nascita e il nulla eterno del dopo la morte, e al suo essere costretta a lottare, per conservarsi, sia contro l’intrinseca manchevolezza della propria stessa natura, sia contro la scarsità delle risorse naturali, sia infine contro gli altri esseri viventi che concorrono all’appropriazione di quelle risorse scarse.

Il confronto di  Björk con Rosenzweig è forse, tra i tre, il più difficile e problematico, in ragione della centralità che ha per il filosofo tedesco la coscienza del nostro essere mortale. Replicando la formula utilizzata più di un secolo prima da Bichat, Rosenzweig assume che la vita sia definibile in funzione della morte e, più precisamente, come ciò che resiste alla morte. Qualunque filosofia neghi o sottovaluti questo fatto è, per l’autore della Stella della redenzione, una filosofia inautentica, come inautentico è il platonismo (e, più in generale, la filosofia pagana) che, per affermare l’immortalità dell’anima è costretto a minimizzare l’importanza della vita del corpo: «È importante notare»– spiega Björk – «che l’affermazione della morte è un’affermazione della vita del corpo e solo in questo senso una critica al paganesimo» (Björk 2022, p. 36). Di contro a quest’ultimo, la filosofia che nasce in seno all’ebraismo sostiene, proprio attraverso l’affermazione della morte, l’unità dell’essere umano. «Affermare questa unità»– continua lo studioso svedese – «significa affermare il suo carattere essenzialmente mortale e definire la vittoria sulla morte come la speranza in un mondo che può redimersi dalla morte [solo] affermandola» (ibidem).

Si tratta del punto decisivo, perché per Rosenzweig la morte non figura solo come garante dell’unità dell’essere umano, ma anche come condizione dell’eternità, dato che – scrive Björk citando La scienza di Dio – «quando “una forma del mondo muore, viene … resa eterna”. Ciò che è stato è per sempre ciò che è stato. Ora esiste una volta per sempre. Il morto rimane nell’ordine del passato come qualcosa di eterno che attende la propria restituzione» (ivi, p. 46). Il punto decisivo risiede allora proprio in ciò che distingue la posizione di Rosenzweig da quella di Epicuro (ivi, p. 19): agli occhi del filosofo tedesco, la morte (per usare la giusta formula critica di Furio Jesi) è qualcosa e insieme nulla, qualcosa che deve venire annientato dalla redenzione affinché sia davvero nulla. La redenzione, per mostrare la propria necessità, deve redimere dalla morte, ma può annullare la morte solo perché di questa ha fatto innanzitutto un qualcosa. In questo senso, mi pare si debba dire non solo che Rosenzweig resta, in fondo, un pensatore «biocentrico» (ivi, p. 27), ma che la sua rimanga, per citare ancora Jesi, una «religione della morte» (Jesi 2011, p. 287;  Godani 2022).

Diverso sembra essere il discorso relativo all’opera profonda e complessa di Karl Barth. Per il teologo protestante, non si tratta di istituire una sorta di dialettica tra creaturalità dell’umano e redenzione divina, perché in qualche modo la nostra mortalità è già da sempre compresa nell’eternità del suo Creatore : «Il semplice fatto della morte – anche della morte più orribile – non è qualcosa che possa mettere in questione la vita eterna, perché l’eternità della vita non è l’abolizione della morte naturale. L’eternità è la trasformazione del senso dell’esistenza finita e mortale da qualcosa di mancante [scarce] a qualcosa di completo [abundant] (ivi, p. 91). In tal caso, la questione che si pone è come possa, questa «abundant modality» (ivi, p. 110), essere efficace «qui e ora, in un mondo governato dalla mortalità, dalla mancanza e dalla lotta per l’esistenza» (ibidem). È il compito di ciò che Björk chiama «politica dell’immortalità»: «Trasformare l’economia della vita rifiutando di considerarla come necessariamente governata dalla mancanza e formulando strategie etiche e politiche capaci di costrastare la riduzione della vita a mera lotta per la sopravvivenza» (ivi, p. 185). Il compito, potremmo dire in altre parole, è quello di iniziare a praticare una forma di vita che consegua da una concezione dell’esistenza come qualcosa che è, in se stessa, separata dalla morte e dalla mancanza.

La terza monografia di cui si compone The Politics of Immortality è forse la più originale, essendo dedicata ad un autore poco noto come Oskar Goldberg. «Il genio teologico di Goldberg – spiega il pensatore svedese – è consistito nell’aver compreso che il problema dell’immortalità è connesso a questo mondo e a questa vita e, di conseguenza, alla presenza di Dio qui e ora» (ivi, p. 120). Prendendo l’esempio non indifferente del popolo ebraico, che sembra debba valere tuttavia soltanto come un modello tra gli altri, Goldberg legge la Torah come un testo destinato a produrre una trasformazione radicale nel modo di vivere del popolo a cui si rivolge. Si tratta di una «trasformazione della mentalità» (ivi, p. 122), che avrebbe il compito di modificare la stessa natura umana. La mentalità umana «tradizionale» è centrata sul fatto che tutto l’interesse dell’uomo si rivolge a quanto esiste attualmente; ma tale esistente attuale – è questo il punto fondamentale del discorso di Goldberg – non è che una piccola parte del vasto regno delle res potentiae, cioè di quelle realtà che, pur non essendo attuali, possiedono nondimeno una sussistenza indipendente dalla loro attualizzazione. Concepire l’esistenza umana come parte di quell’infinita vastità del possibile che coincide con Dio produrrebbe una forma di vita per la quale la presunta finitudine dell’attuale sarebbe immediatamente redenta, cioè concepita come una delle eterne espressioni di Dio.

Se ci si attiene a ciò che dicono Goldberg e il suo circolo, le conseguenze politiche di questa «nuova antropogenesi» (ivi, p. 132), alternativa a quella del soggetto moderno, vivente, finito e possessivo, che fa funzionare la macchina capitalistica, sono radicali: «Insieme ai suoi compagni Caspary e Unger, Goldberg ha sostenuto una politica di esilio dagli apparati che fissano la vita al mondo attuale» (ivi, p. 196). Tuttavia, come riconosce lo stesso Björk, «che cosa implichi questo esodo dalla civiltà rimane fastidiosamente vago» (ibidem). Lo stesso uso politico che Björk fa di questi autori sembra impedire, giustamente, di intendere l’esodo come un ritrarsi dalla civiltà in quanto tale (secondo la via indicata da Jacques Camatte, che Björk cita in un articolo uscito sul numero 5 della rivista rivista “Endnotes”), senza tuttavia comprenderlo come mera opzione strategica funzionale alla lotta contro il capitalismo (come accade nella teoria dell’esodo proposta da Paolo Virno).

È necessario forse spingersi ancora più in là sulla via dell’immanenza, per affermare che, analogamente alla vita eterna, anche la società senza classi (o comunque si voglia chiamare la situazione di una «politica non catastrofica») o esiste da sempre, almeno localmente e marginalmente situata, nella stessa storia dell’umanità (e dunque anche nei meandri di una vita sussunta dal capitale), oppure continuerà a presentarsi come un progetto o come una speranza, cioè come una chimera. Il compito di una politica radicale, oggi, non consiste più nella pretesa di costruire un mondo nuovo, ma solo nell’affermazione di ciò che già nel vecchio mondo reca l’eterna traccia del nuovo, di ciò che in tutto il corso disastroso della storia umana ha resistito silenziosamente e caparbiamente, quasi senza volerlo, all’oppressione e alla distruzione, in una parola della beatitudine che ci è concessa.

Riferimenti bibliografici
M. Björk, Life against Nature, in “Endnotes”, n. 5.
P. Godani, Contro la religione della morte, in “Altraparola”, gennaio 2022.
F. Jesi, Cultura di destra, Nottetempo, Milano 2011.
J. Rancière, En quel temps vivons-nous ? Conversation avec Eric Hazan, La Fabrique, Paris 2017.

Mårten Björk, The Politics of Immortality in Rosenzweig, Barth and Goldberg. Theology and Resistance Between 1914 and 1945, Bloomsbury Academics, London-New York-Oxford-New Dehli-Sydney 2022.

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