Dopo i bui e i silenzi della mostra dedicata ad Artemisia Gentileschi, la sede napoletana delle Gallerie d’Italia ospita una notevole esposizione di opere dell’inquieto, vorace e inafferrabile Mario Schifano (così definito dal gallerista Plinio De Martiis).

Questa volta la mostra occupa due piani, parte del secondo (quella di solito dedicata alla collezione Novecento) interamente occupato dalle opere di Schifano esposte in ordine cronologico e tematico, e il piano terra nel salone monumentale rivolto ai lavori di grande formato. Cinquantacinque opere provenienti dalle Collezioni Intesa Sanpaolo, Agrati, nonché da prestiti di collezioni pubbliche e private che ci offrono una visione abbastanza completa del percorso artistico di Schifano attraversando il trentennio più intenso della sua prolifica carriera.

Nell’uscire dall’ascensore si ha la sensazione che un frame dischiuda l’inquadratura di Tempo Moderno, uno smalto e carta su tela del 1962, che dà così inizio al percorso espositivo. L’opera condivide la sala con altri Monocromi, serie che di fatto segna l’ingresso di Mario Schifano nel mondo dell’arte contemporanea grazie alla visionarietà della gallerista americana Ileana Sonnabend, che immediatamente riuscì a cogliere la potenza e la forza innovativa di queste opere e offrì all’artista il primo contratto in esclusiva.

Lo strumento che veicolò questa idea del monocromo, del non quadro, – racconta Giuseppe Uncini – fu una macchina fotografica che Mario allora, nel ’58, non aveva. Si può immaginare Schifano senza macchina fotografica? No!
La prima che ebbe tra le mani fu la mia Rolleiflex. Aveva il visore reflex e le immagini che si vedevano là dentro erano magiche, diventavano tutte bellissime. […] Così cominciò a fare le prime fotografie. […]
Fu quella visione, la forma dello schermo, che venne fuori sul monocromo.
Infatti quel contorno a schermo dove poi lui dipingeva dentro con il colore nero, il bianco e nero – e dopo con il verde, il giallo e il rosso – aveva la forma del visore di una macchina fotografica. L’idea era questa: vedere la realtà filtrata da uno schermo, da un mezzo tecnologico (Ronchi 2012, p. 31).

Ma c’era anche la volontà di segnare un nuovo inizio, di azzerare tutto e ricominciare da capo: Schifano inaugura il suo ingresso nella pittura con un gesto eloquente, incolla carta da pacchi sulla tela e comincia a dipingere. Copre per andare oltre e le immagini appariranno solo più tardi. Inizialmente in forma di frammenti, come i reperti copiati da disegnatore per il museo di Villa Giulia (lavoro ottenuto grazie alla mediazione del padre archeologo), che costituiranno il personale repertorio selettivo di immagini dal quale attingere dopo la fase di totale azzeramento prodotta con i Monocromi.

Ma il gesto di incollare in qualche forma rimanda a quello di affiggere i manifesti pubblicitari, richiama la materialità dello spessore della colla che si addensa e affiora in superficie sotto la carta che nella tela diviene spazio non dipinto o spessore di colore, e anche al passaggio successivo che vedrà l’inserimento di frammenti, porzioni di iconiche scritte pubblicitarie come in Segno d’Energia del 1965 e in Propaganda del 1962, esposte nella sala intitolata La pittura e le insegne. «Il monocromo si trasformò in una specie di tabula rasa in attesa di diventare qualcosa, di ospitare qualcosa d’altro. Diventò un luogo di proiezione, un campo fotografico» (ivi, p. 44).

Vedere il mondo attraverso una cornice – virtuale o reale – sarà, dunque, una prerogativa dell’artista, una sorta di dispositivo dal quale far dipanare le sue opere che si snoderanno attraverso la fotografia, il cinema, la musica, per mettere «in atto nei fatti una personalissima “sintesi delle arti”» (ivi, p. 57) in opere assolutamente innovative e in continua sperimentazione.

Quelle scelte da Luca Massimo Barbero per la mostra napoletana ruotano intorno all’immagine nelle diverse declinazioni: l’immagine sottratta – Monocromi –, l’immagine in frammenti – insegne e paesaggi –, l’immagine in movimento influenzata dal Futurismo, le immagini che prendono il sopravventoPaesaggi TV, Tutti morti –, e ci restituiscono «l’attualità e la vitalità inesaurita di Schifano quale grande creatore dell’immagine della vita contemporanea» (dal pannello introduttivo alla mostra).

Si potrebbe aggiungere, riprendendo le considerazioni di Massimo Recalcati sui gesti dirompenti di Pollock, Burri e Fontana, che l’uso dell’immagine abbia costituito per Schifano il modo di «rivendicare il rapporto della pittura con il reale, di includere il reale nella pittura, di traumatizzare lo spazio teoreticamente bidimensionale del quadro con qualcosa che sgomita, palpita, pulsa, batte, che non si può contenere in quello spazio» (Recalcati 2016, pag. 52).

In Burri si concretizza in spessore materico, in Schifano nella manipolazione ossessiva delle immagini. Le sue diverse case, sempre grandissime ed eleganti, ne sono state invase: televisori muti costantemente accesi su canali diversi, riviste dalle quali ritagliare sagome, immagini fotografate dagli schermi e poi «incastonate nella cornice curvilinea del tubo catodico, fermate in una specie di indifferenza di significato, e la pittura quasi si ritrae limitandosi a qualche macchia di smalto trasparente» (Ronchi 2012, p. 168). Da qui l’intuizione delle tele emulsionate per fissare su tela fotografica ciò che fotografava dalla televisione, poi completate da sporadici interventi con smalto alla nitro trasparente per evidenziare solo alcune parti.

L’ossessione per la costrizione dell’immagine in una cornice si era manifestata qualche anno prima nell’uso del plexiglass e del Perspex colorato che l’artista sovrapponeva alle tele. L’incontro con Maurizio Savioli, artigiano delle materie plastiche che già collaborava con Burri e Fontana, assecondò la sua idea di dare colore attraverso la plastica e renderla parte del quadro per dare alle immagini una «nuova lucentezza, [farle] brillare in modo diverso» (ivi, p. 72). Il vento era il fiato che usciva dagli alberi, composto e salubre del 1965 è infatti un’opera in bianco e nero, dove le porzioni del paesaggio rappresentato traspaiono dai sei pannelli di colori diversi che le inquadrano come se fossero viste da finestrini di auto o aerei in movimento. Ma in quest’opera, così come in molte altre, anche la parola diviene soggetto artistico, il titolo fa parte del quadro, diviene esso stesso immagine unitamente alla firma schifano – in minuscolo in alto a destra –, coperta da uno dei pannelli colorati.

Schifano si inserì prepotentemente nell’ambiente artistico-culturale romano. Fu molto apprezzato da Moravia, che recensì la performance al Piper del ’67 con il memorabile articolo per “L’Espresso” Al nightclub con i Vietcong; fu amico di Ungaretti, col quale condivideva l’infanzia trascorsa in Africa, ricordata dal poeta in uno scritto su palme e stelle. Da quest’ultimo un’altra intuizione dell’artista che ridusse in sagome, appunto, palme e stelle, in un primo momento dipingendone le silhouette, poi materializzandole in «una serie di cento esemplari con una base rotonda e un’incisione: MARIO SCHIFANO – PER COSTRUZIONE DI OASI» (ivi, p. 87), dando inizio anche alla stagione delle falsificazioni delle proprie opere che finirà per occupare un mercato parallelo.

Alcuni esemplari appartenenti a questo periodo sono esposti nella sala dal titolo Tutte le stelle, compagni, il mondo. Qui troviamo anche Tableau peint pour raconter l’inquietude amoreuse de Susi del 1970, dove ancora una volta il titolo diviene parte del dipinto e ci introduce, per i colori usati, gli sfondi e la modalità pittorica, alle tele emulsionate dei Paesaggi TV della sala successiva. Se in qualche caso il flusso continuo delle immagini in movimento trasmesse dalle diverse emittenti televisive diviene frammento di reale mediato e catturato per fissarlo su tela, in altri il medium TV diviene cornice dentro cui costringere, bloccare, riferimenti a opere già realizzate (Inventario, 1973-1974) o riproduzioni di opere, stralci di vita o ritratti di artisti che lo hanno suggestionato (Senza titolo (Omaggio a De Chirico), 1974-1978, Untitled, 1976, Picasso in TV, 1974-1975).

Il salone Piacentini, infine, ci accoglie con l’imponente Festa cinese… del 1968, composta da cinque pannelli e realizzata con la tecnica con carta incollata su tela e smalti usata in quegli anni. Quest’opera è cronologicamente e tecnicamente legata alla serie Palme, in quanto Schifano ricavò i soggetti da immagini fotografate dalle riviste Potere Operaio e Lotta continua (uomini con bandiere, falce e martello), ma anche a una fase della sua vita in cui rivendicava il suo essere figlio del popolo. Erano anche gli anni della contestazione politica che in Schifano si concretizzò nella realizzazione di un’opera interamente legata alla simbologia comunista, in risposta a un incarico ricevuto da Marella Agnelli per arredare la nuova casa di Roma. Ovviamente gli Agnelli rifiutarono la tela ma ottennero comunque un’altra decorazione per un’intera parete.

Le successive grandi opere esposte nel salone appartengono a un periodo di rinascita artistica ma anche di ritrovata vitalità dopo i continui arresti, i ricoveri e gli eccessi dovuti alla dipendenza da sostanze stupefacenti. La relazione con Monica De Bei, la nascita del figlio Marco e il matrimonio, riporteranno una, seppur temporanea, serenità e apriranno a un nuovo uso del colore. Gaston a cavallo dell’86 è un’opera gioiosa, quasi liberatoria. Schifano si sottrae per un attimo alla costrizione che le cornici virtuali e i plexiglass esercitavano sui suoi dipinti. Invade di colore la cornice, in modo anche imperfetto, con sbavature, gocciolamenti e chiazze distribuite sulla tela, crea un effetto dinamico in contrasto con l’innaturale fissità del cavallo. Ma movimento era anche fare il quadro. Racconta il gallerista Mazzoli:

[…] muoveva queste tele come fossero foglie, camminava sui quadri, sceglieva i colori a memoria, era ispirato.
Vennero fuori dei quadri che erano un sogno. Folgoranti. Nacquero così i primi Orti botanici, i primi Gigli d’acqua, e poi la serie dei Ballerini. […] Quando aveva delle idee vederlo lavorare era come sentire un concerto, veder dirigere un’orchestra, acqua fresca che sgorga da una sorgente, era una cosa... Per esempio come sceglieva i colori, un’operazione difficilissima. Era una specie di danza, si estraniava dal mondo con questi barattoli e le tele per terra, cantava nenie nordafricane, forse ricordi d’infanzia, di quando era in Libia con il papà, e faceva quadri incredibili (ivi, p. 254).

Poi di nuovo negli anni ’90 un ritorno alla tecnologia, al linguaggio televisivo, questa volta con l’utilizzo di tecniche di stampa digitale per ottenere opere di grande formato. Un continuo andare oltre il medium, oltre i limiti delle proporzioni tradizionali, in modo da aumentare la quantità di immagini stampate contemporaneamente sul pannello in PVC e anticipare così la simultaneità di sollecitazioni audio-visive cui siamo attualmente sottoposti. Riprendendo le parole di Adorno in un’intervista del giovane Umberto Eco sul rapporto tra La TV e la cultura, Schifano non è mai ricaduto «al di sotto del livello della tecnica», ma ha dato a questi strumenti una «funzione nuova» e svolto «un lavoro critico all’interno di questi stessi mezzi di massa» (Eco 1966).

Per esempio del 1990 è un’opera monumentale, di circa 650 x 500 cm, che tenta di congelare il presente ma contemporaneamente ne testimonia anche l’impossibilità, la continua e inarrestabile deperibilità cui tutti siamo soggetti. Il margine in basso a destra risulta, infatti, danneggiato da un incendio e Schifano non volle alcun intervento sulle opere coinvolte. Al contrario, ne filmò lo stato e comunicò a Jacorossi che le avrebbe dovute lasciare così, sostenendo, con una visione ruskiniana, che le opere – come le architetture – avessero un loro ciclo di vita.

Ma ancora una volta è riuscito ad andare oltre e superare il limite dell’essere un errore biologico come sosteneva Achille Bonito Oliva: «Io lo sfottevo e gli dicevo che l’artista è un errore biologico rispetto all’opera, che lui prima o poi doveva morire mentre l’opera restava. E lui per sicurezza ne ha lasciate una gran quantità, una scia che solo per decodificarla richiederà ancora molto tempo. È una cosa simpatica, perché dà l’idea di un artista che interferisce ancora con il quotidiano» (Ronchi 2012, p. 326).

Riferimenti bibliografici
G. Deleuze, Che cos’è un dispositivo, Cronopio, Napoli 2019.

G. Maccari, Mario Schifano e le contaminazioni massmediatiche.
M. Recalcati, Il mistero delle cose. Nove ritratti di artisti, Feltrinelli, Milano 2016.
L. Ronchi, Mario Schifano. Una biografia, Johan & Levi, Milano 2012.
R. Venturi, “Qualcos’altro”. Mario Schifano e il monocromo, in “Antinomie”, 23 gennaio 2020.

Mario Schifano: il nuovo immaginario. 1960-1990, a cura di Luca Massimo Barbero, 2 giugno − 29 ottobre 2023, Gallerie d’Italia di Intesa San Paolo.

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