«Mario De Biasi arrivò in aereo a Catania alle 22.30 di giovedì 14, noleggiò un’auto e, con una guida trovata a Nicolosi, giunse al rifugio Sapienza, sulle pendici dell’Etna. All’una e un quarto cominciò la sua terribile avventura […] alle quattro De Biasi era sulla cima della montagna e gli occhi gli si riempirono di terrore». Le parole appena riportate sono le battute iniziali dell’editoriale firmato da Nando Sampietro, direttore di Epoca che, nel numero del 31 maggio del 1964, introduceva così l’incredibile servizio fotografico realizzato da De Biasi durante l’eruzione del vulcano. «Al nostro fotografo parve di essere scivolato nelle viscere dell’inferno […], la carriera di Mario De Biasi è costellata di episodi emozionanti […] ma il volto del terrore non gli si era mai rivelato come sulle balze infuocate dell’Etna. Guardando le straordinarie immagini che Epoca è orgogliosa di presentare in questo numero avrete una prova dello spirito di sacrificio che può animare un giornalista». Sampietro ricostruisce così, in poche righe piene di pathos e gratitudine, i cinque giorni che De Biasi trascorse sull’Etna fotografando in condizioni al limite della sopportazione umana.

E tuttavia, l’editoriale di Sampietro è interessante anche per altre ragioni: la prima riguarda l’importanza riconosciuta al ruolo del fotografo come “giornalista nuova formula”, così come era stato teorizzato da Federico Patellani quasi vent’anni prima, ma che in Italia non si era, di fatto, mai veramente affermato; la seconda ragione è legata, invece, a quell’appellativo di “italiano pazzo” che Mario De Biasi si era conquistato sul campo – insieme alle schegge di una granata – durante la rivolta antisovietica a Budapest nel 1956 e che, dieci anni dopo, in un altro corpo a corpo questa volta ingaggiato con la lava dell’Etna, continuava a calzargli perfettamente. «Ho avuto sempre la fortuna di non avere paura – dirà lo stesso De Biasi –, quando fotografo non penso al pericolo e neanche di morire, penso solo alla fotografia».

A questo “italiano pazzo” è dedicata la grande retrospettiva dal titolo Mario De Biasi. Fotografie 1947-2003, presentata alla Casa dei Tre Oci di Venezia (13 maggio 2021 – 9 gennaio 2022) e curata da Enrica Viganò. Sono 256 le fotografie – metà delle quali presentate al pubblico per la prima volta – che compongono la mostra, strutturata in dieci diverse sezioni; oltre alle fotografie, quasi a fare da cornice, troviamo le numerose copertine originali di Epoca, lo scambio di lettere e veline tra il fotografo e i direttori della rivista, i disegni realizzati dallo stesso De Biasi.

Attraversare le diverse sale della Casa dei Tre Oci significa, prima di tutto, trovarsi faccia a faccia con il lavoro di un fotografo che sembra aver mancato pochi appuntamenti con la storia. Dai già citati eventi di Budapest, ai reportage eseguiti durante i viaggi in Russia e Siberia per testimoniare ciò che accadeva oltre la cortina di ferro durante gli anni della guerra fredda, dai servizi sull’impresa spaziale dell’Apollo 11 (ai quali Epoca dedicò ben cinque numeri), agli scatti realizzati in occasione della Mostra del Cinema di Venezia, il design dell’installazione orienta lo sguardo e lo guida attraverso la trama degli eventi che le immagini ricostruiscono nello spazio espositivo: Time machine.

La prima sezione si intitola Gli italiani si voltano, dal titolo di quella che, probabilmente, è la foto più nota tra quelle realizzate da De Biasi: Moira Orfei vestita di bianco cammina per le strade di Milano, e su di lei convergono tutti gli sguardi dei passanti. È il 1954, Orfei è ancora una sconosciuta artista del circo e Bolero Film, rivista in crisi, chiede a De Biasi un servizio fotografico per rilanciare le vendite. Il titolo della fotografia è un chiaro riferimento a Gli italiani si voltano di Alberto Lattuada, uno dei sei episodi che compongono il film collettivo Amore in città del 1953, film-esperimento – poco riuscito – voluto da Cesare Zavattini per rilanciare un Neorealismo ormai quasi giunto all’epilogo. E, del resto, la stessa struttura di Amore in città mutuava dai giornali la forma del fotogiornalismo da rotocalco – al quale Zavattini, collaboratore di Mondadori già durante l’esperienza di Tempo, non era di certo estraneo, così come non lo era lo stesso Lattuada – mentre Mario De Biasi sembra seguire le orme del pedinamento messo in scena dal regista, in quel continuo gioco di rimandi e ritorni (o di “ridondanza mediatica”, come scrivere Giuseppe Pinna) che caratterizza il rapporto tra cinema e fotografia di quegli anni. De Biasi segue Moira Orfei ma, allo stesso tempo, si lascia guidare da lei attraverso la città, fotografando Milano al suo passaggio (lo scalo di Lambrate, la Galleria Vittorio Emanuele, il bar Zucca, il viaggio in tram, l’arrivo al circo): da voyeur a voyager.

E Mario De Biasi fotografo-viaggiatore lo è davvero: gli scatti realizzati a New York fanno da contrappunto alle fotografie dell’India, del Marocco, della Cina, del Giappone, del Messico. E tuttavia, sarebbe riduttivo guardare l’intera operazione come una sequenza di diorami, o come una raccolta enciclopedica, come suggeriscono alcune delle sezioni. «Ogni volta che cerchiamo di costruire un’interpretazione storica dobbiamo fare attenzione a non identificare l’archivio di cui disponiamo, fosse anche proliferante, con i fatti e i gesti di un mondo di cui esso offre sempre solo alcune vestigia. Ciò che è proprio dell’archivio è la lacuna». Se la caratteristica di ogni archivio è il suo essere “bucherellato”, lacunoso, come scrive Didi-Huberman, questa inevitabile parzialità diventa radicale in ogni operazione di curatela, dove la cesura è necessaria, inevitabile. Ecco allora la necessità di muoverci nello spazio insidioso del non-detto per tracciare così una narrazione diversa, meglio: aprire a nuove possibili letture.

Facciamo allora un passo indietro, ritorniamo alle pendici dell’Etna, a due passi dalla lava incandescente. Mario De Biasi non è semplicemente un esecutore: ogni cosa deve essere fotografata affinché ogni cosa possa essere vista. Ed è per questo motivo che rischia la vita per realizzare le magnifiche foto dell’eruzione; è per questo che non si tira indietro davanti all’orrore del linciaggio degli agenti della polizia segreta da parte degli insorti: il fotografo scatta da vicino, come suggerisce Capa, e testimonia la brutale verità della trasformazione degli eroi in carnefici (dell’intera sequenza, Epoca pubblicò solo una foto). Quando nei primi anni cinquanta, Epoca sembra non aver ancora esaurito il repertorio “a soggetto neorealista”, fatto di poveri e umanità dolente, De Biasi percorre l’Italia da Nord a Sud rifuggendo ogni sensazionalismo patetico e fotografando un paese sulle soglie della modernità: la giovane ragazza sarda che, avvolta dal mantello nero, mangia il gelato; la donna napoletana seduta in spiaggia che allatta il proprio bambino; le periferie di Milano; la cieca di Trastevere fotografata sotto l’insegna della Coca Cola.

Nel 1956 Enzo Biagi lo invia a New York per fotografare le signore dell’aristocrazia italiana e De Biasi rimanda il rientro per poter osservare meglio la città. Scelta che si dimostrò vincente: fuori da uno dei ristoranti della città incontrò Aristotele Onassis che si lasciò fotografare. Momento decisivo, come vorrebbe Cartier-Bresson? Velocità di esecuzione? Nella fotografia di De Biasi convergono molteplici influenze, ma ciò che caratterizza il suo lavoro è soprattutto la strada dell’insolito e del punto di vista spesso bizzarro: mentre tutti i fotografi sono accalcati davanti a lei, Sophia Loren si volta e scorge De Biasi nascosto dietro uno steccato: il risultato è una fotografia memorabile. Il percorso della mostra si chiude con una sezione dal titolo Madre Natura, tassello ulteriore di una ricerca continua, instancabile. Del resto, da quell’italiano pazzo che ha rivoluzionato la storia del fotogiornalismo italiano non ci si poteva aspettare diversamente.

Riferimenti bibliografici
G. Didi-Huberman, L’immagine brucia, in A. Pinotti, A. Somaini, a cura di, Teorie dell’immagine. Il dibattito contemporaneo, Raffaello Cortina, Milano 2009.
E. Viganò, a cura di, Mario De Biasi. Fotografie 1947-2003, Marsilio, Venezia 2021.

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