Che il tempo di crisi possa essere anche un tempo propizio, che in esso si celi «un germe trasduttivo» (p. 152), capace di propagarsi e generare nuove forme, è quanto il saggio di Vincenzo Cuomo si propone di attestare nell’ambito dell’estetica, descrivendo in che modo nel campo non del simbolico ma appunto della sua crisi, possa innestarsi un nuovo modo di fare arte. «È del tutto evidente che – scrive Cuomo (p. 145) –, anche solo per pensare e problematizzare la radicale e probabilmente irreversibile crisi degli “ordini simbolici” […], ci sia bisogno almeno di una “provincia del simbolico” da cui e per cui parlare e pensare».

Compito del filosofo sarà dunque quello di attraversare questo campo e tentarne una cartografia, guidato in questo caso da una bussola che egli stesso ha costruito e i cui punti cardinali sono costituiti da alcune parole chiave, «categorie cartografiche» (p. 127) – crudeltà, metamorfosi, sensazione, ibridazione e vuotoutili a mappare, e quindi a delineare e tracciare, un territorio in continua espansione e mutamento: quello variegato e complesso della tecno-arte oggi.

L’ipotesi implicita del volume potrebbe essere quella secondo cui la provincia del simbolico coincida con il campo della tecno-arte. Questo campo si definisce secondo la diade arte e tecnica che, com’è noto, condividono la medesima origine semantica e concettuale e che si ritrovano oggi a operare congiuntamente secondo rinnovate modalità tecno-estetiche. I primi passi mossi dal libro hanno infatti il merito di affermare la fuoriuscita dai paradigmi estetici che hanno caratterizzato la modernità, affermazione che non si limita tuttavia a una semplice constatazione.

Alcune pratiche artistiche contemporanee (gli esempi che aprono il testo sono Bill Viola e Riley Harmon, ma la schiera degli artisti si arricchirà nella seconda parte del volume) presentano, secondo l’autore, un elevato grado di sperimentazione tecnica e artistica capace di reinvestire – nel senso di mostrare, mettere a nudo e allo stesso tempo in discussione – quei “meccanismi antropogenici” che avevano dapprima contribuito alla costituzione delle due principali tendenze estetico-artistiche dell’epoca moderna – quella contemplativa e quella meditativa – e che possono ora rappresentare le “isole” o “province” del simbolico da cui muovere per pensarne la crisi nell’epoca dei post. Questi meccanismi antropogenici fondamentali sarebbero quelli della coazione a ripetere, del clima di vizio e della rottura dei limiti corporei, messi a fuoco principalmente attraverso un dialogo serrato con il pensiero di Christoph Türcke e di Peter Sloterdijk.

Attraverso questo confronto, l’autore arriva alla formulazione della prima ipotesi teorica del testo (p. 43), ovvero la possibilità, da parte delle arti contemporanee, di incarnare e contemporaneamente “mettere a nudo” i meccanismi antropogenici, nella modalità però dell’aporia sperimentale, in altre parole nel modo del non-passaggio al piano simbolico, e consentire così l’esperienza di ciò che resta fuori e indipendente da esso. Le arti contemporanee dunque, in forme tecno-morfe e sperimentali, tracciano gli ancora incerti confini di questo campo del non simbolico, di cui andranno meglio chiariti i termini, testando, seguendo la seconda ipotesi teorica del testo (p. 80 e seguenti)

Forme di distanza estetica in grado di fronteggiare sia le eccitazioni che le narcosi mediali e, facendo ciò, sembrano per un verso in grado di mettere in discussione le antropo-tecniche che hanno caratterizzato la civilizzazione occidentale […], per un altro verso, come abbiamo detto, appaiono in grado di mettere a nudo gli stessi meccanismi antropogenici elementari, soprattutto perché sono gli stessi ambienti mediali contemporanei a farli emergere in una chiarezza che forse essi non hanno mai assunto (p. 82). 

Il volume si organizza quindi secondo un duplice andamento: fissare in prima battuta le basi teoriche, per lanciarsi nell’esplorazione cartografica poi. Se i tedeschi Tücke e Sloterdijk rappresentano il punto di partenza e il riferimento costante che permette a Cuomo di formulare il quadro teorico generale entro cui muoversi, non mancano confronti importanti con la filosofia post-strutturalista francese – l’apporto teorico di Deleuze e Guattari, Lyotard, Baudrillard si misura in particolar modo nel secondo capitolo, quando si tratta per l’autore di comprendere «con maggiore chiarezza la “radice” psico-economica e libidica della crisi degli ordini simbolici nella tarda modernità novecentesca» (p.47-48) – e con i pensatori classici dell’estetica dei media – quali McLuhan e Benjamin, la cui forte influenza è evidente in particolare nel terzo capitolo, quando la questione mediale e tecnica viene posta esplicitamente, laddove l’autore definisce gli ambienti mediali come «il punto di incrocio e di complessificazione tra meccanismi antropogenici, antropo-tecniche e psico-economia» (p. 73).

Ecco quindi che possono esser meglio definite e comprese quelle parole chiave con cui mappare il territorio delle arti tecnologiche, lemmi che diventano altrettante modalità di attuazione di quel principio teorico – svelamento, problematizzazione e riattualizzazione – di quei meccanismi antropogenici di cui già abbiamo fatto menzione. Ma qual è la tecno-arte che interessa Cuomo e come evitare di perdersi nella polisemia del simbolico, di cui questo volume vuole registrare la crisi?

Abbiamo visto che le esperienze artistiche cui Cuomo si interessa sono definite nel corso del testo come delle aporie, il cui senso ultimo è, secondo le parole dell’autore, ontologico-sperimentale, proprio per la loro capacità di cercare – e talvolta raggiungere – l’elementale (p. 44). La tecno-arte sarebbe quindi quell’arte che come technè è in grado non solo di riorganizzare l’esperienza sensibile, ma anche di potenziarla o diminuirla attraverso strumenti e mezzi tecnici che da un lato prolungano, secondo una definizione ormai classica, i nostri organi sensoriali, e dall’altro contribuiscono a costruire gli ambienti mediali in cui viviamo o in cui ci immergiamo in occasione di una mostra o di una performance.

La body art di Orlan o Antúnez Roca, tra gli esempi citati da Cuomo, mette in questione la struttura “standard” del corpo e del “sensorio” (p. 99); la video-arte mette anch’essa in scena performance corporee sul registro del non simbolico, quindi del dolore come metamorfosi e coazione a ripetere, e della desacralizzazione del corpo stesso, come nel caso di Charlotte Davies, e della vita, come nel caso di Chris Burden. La stessa video-arte procede, per altri versi, a sperimentazioni volte a “mettere in figura” (p. 105 e seguenti) l’impercepibile e l’inesperibile, come il tempo nei video di Woody Vasulka, o come l’impercepibile del cosmo nelle opere dell’americano Shawn Brixey, ibridando in tal modo «le sperimentazioni metamorfiche […] e quelle figurali della sensazione» (p. 111).

Le sperimentazioni acustiche e musicali di John Cage sono inoltre, secondo l’autore, un tentativo esemplare di “acclimatarsi” negli ambienti potenzialmente ostili ed estranei in cui ci ritroviamo una volta cacciati dal recinto del simbolico – ambienti mediali caratterizzati da diversi gradi di immersività – ma senza per questo cercare di ricrearne un altro, circoscrivendo al contrario “il vuoto del soggetto” (p. 134) e provincializzando in tal modo non solo l’ordine del simbolico ma anche il paradigma estetico occidentale (p. 133).

L’espansione quasi sincrona di corpo, sensorio e media sembra quindi essere un tratto distintivo di questa tecno-arte, caratterizzata da un’ibridazione progressiva dei media così come delle «pratiche nello stesso tempo estetiche, cognitive, ontologiche» (p. 118). Ma qual è, dunque, l’ordine simbolico cui questa tecno-arte rinuncia? La nozione, com’è evidente, percorre tutto il testo, precisandosi poco a poco attraverso un dialogo serrato con gli autori discussi e un’analisi precisa delle opere proposte. Tuttavia è in una nota che Cuomo esplicita il suo debito nei confronti della teoria lacaniana dei tre registri e al tempo stesso permette al lettore di tenere insieme i molteplici riferimenti che percorrono il saggio: simbolico è dunque ciò che «produce ordine/stabilità nelle relazioni umane» e «ciò che dona ad esse il “senso”» (p. 144).

È interessante notare che al di fuori di questa produzione di senso, l’autore ritrovi la possibilità di definire un campo che, lungi dall’essere circoscritto, è provvisoriamente definito dalle parole chiave che lo hanno guidato nella mappatura della tecno-arte contemporanea. Un campo che è essenzialmente relazione, secondo la definizione presa in prestito da Simondon, una relazione che stabilisce un rapporto di reciprocità tra il singolo elemento e l’insieme, un campo che l’elemento subisce e di cui fa parte ma in cui ha, al tempo stesso, una funzione creativa e attiva, «modificando le linee di forza del campo stesso» (Simondon 2011, p. 741).

Il non-simbolico si definisce quindi per Cuomo come un «campo-ambiente ad elevata metastabilità ma che potrebbe diventare, esso stesso, un germe di trasduzione, vale a dire di trans-formazione nel campo, infinitamente più ampio e metastabile delle società “schiumose” e “liquide” contemporanee» (p. 145). Il compito della tecno-arte sarebbe quindi quello di circoscrivere questi campi-ambiente in cui immergersi meditativamente e in cui esperire il luogo vuoto dell’umano, «fuori dal sacro, dal sublime, dal sublimatorio, in ultima istanza dal simbolico […] in cui tentare di nuovo l’avventura di un simbolo […] del fuori-simbolico, che possa farci abitare anche le stelle, gli animali, le macchine.» (p. 154).

Riferimenti bibliografici
V. Cuomo, Una cartografia della tecno-arte. Il campo del non simbolico, Cronopio, Napoli 2017.
P. Montani, Tecnologie della sensibilità. Estetica e immaginazione interattiva, Raffaello Cortina Editore, Milano 2014.
G. Simondon, L’individuazione alla luce delle nozioni di forma e d’informazione, a cura di G. Carrozzini, Mimesis, Milano 2011.
P. Sloterdijk, Sfere, I. Bolle, II. Globi, III. Schiume, Raffaello Cortina Editore, Milano 2014-2015.
C. Türcke, La società eccitata. Filosofia della sensazione, Bollati Boringhieri, Torino 2012.

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