Quando leggerete questo pezzo, probabilmente saprete già se Man Ray è riuscito a battere Andreas Gursky come fotografo più quotato di tutti i tempi. O meglio, più prosasticamente, se l’asta di Christie’s in cui è stato battuto il celebre fotomontaggio surrealista Le violon d’Ingres (realizzato da Man Ray nel 1924) ha sfondato il tetto dei 4.300.000 $, record di vendita detenuto dall’opera di Gursky Rhein II (datata 1999 ma che ha raggiunto quella quotazione ad un’asta del 2011). Ma per capire il senso di questo evento per collezionisti – che immette ulteriormente le immagini tecniche in quel mercato dell’arte comunque dominato dalle immagini pittoriche (la stessa casa d’asta, nata a Londra nel 1766 ma ora proprietà del gruppo francese Artémis, ha sempre superato i suoi stessi record: per capirci sulle cifre che circolano, il dipinto di Leonardo da Vinci Salvator mundi è stato battuto nel 2017 per 450.300.000 $, cento volte di più della foto di Gursky) – bisogna ricostruire il passaggio epocale che porta la fotografia del Novecento dalla sua fase “d’uso” nella stampa periodica d’informazione (es. il miliziano di Capa sulla prima pagina di “Life”) alla sua fase “espositiva” in gallerie d’arte e musei (fase per la verità già attiva in epoca pittorialista, basti pensare a Stieglitz) e la fa giungere al collezionismo d’alto bordo (forse iniziato con le corporate collections fotografiche degli anni Sessanta, tra cui quelle di Hallmark e della Exchange National Bank di Chicago). Senza pretendere di ricostruire la storia del mercato dell’arte fotografica, limitiamoci a dire che la Lee Witkin Gallery (aperta a New York nel 1969) vendeva le opere di Edward Weston o Ansel Adams in una fascia di prezzo compresa tra i 25 e i 200 $: come ci arriviamo ai quattro milioni di Gursky?

Se nel pittorialismo ottocentesco era in gioco l’imitazione di temi pittorici o di particolari tecniche come la gomma bicromatata, nel neopittorialismo digitale la competizione tra fotografia e quadro si gioca direttamente sulle caratteristiche dell’oggetto fisico: nel passaggio dalla pagina alla parete la foto acquisisce nuove dimensioni (già nel 1978 La stanza distrutta di Jeff Wall misura due metri di lunghezza) e nuovi supporti (nel caso di Wall addirittura un light box come i cassoni pubblicitari retroilluminati). In Germania il grande formato compare già con Katharina Sieverding e Günther Förg (Villa Malaparte del 1983 è alta due metri) e poi diventa una specie di marchio di fabbrica per gli allievi della Scuola di Düsseldorf, come Thomas Struth (noto per immortalare spettatori di musei dinanzi a grandi tele: la fotografia come metapittura) e appunto Gursky, che adottano nuovi procedimenti di stampa (Diasec).

Questa monumentalità dell’immagine, che permette a Gursky di giocare sulla relazione tra livello macroscopico (per vedere la foto nella sua interezza si deve stare ad una distanza che normalmente è associata ai quadri sulla parete: si veda Chicago Board of Trade III, settima foto più costosa della storia, battuta da Sotheby’s nel 2013 per poco meno di 3.300.000 $) e livello microscopico (in 99 Cent II Diptychon, al sesto posto della hit parade, si può vedere in dettaglio ogni confezione di un enorme supermercato), è senz’altro un punto di svolta fondamentale per la lievitazione dei prezzi; ma, come argomentava già Walter Benjamin in L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, il tratto ontologicamente dirimente è che il quadro dipinto a mano è un pezzo unico (hic et nunc) mentre la stampa fotografica è solo una delle tante possibili copie che si possono ottenere da un negativo analogico o da un file digitale (che però pur essendo “l’originale” non sono propriamente l’opera). Ed eccoci al necessario passaggio finale che fa entrare la democraticissima tecnica fotografica (iterabile e dunque a basso costo) nel regno del feticismo delle merci artistiche: l’autore certifica il basso numero di copie ed eventualmente – paradosso della riproducibilità castrata – l’unicità della copia; l’acquirente dell’immagine tecnica è finalmente messo alla pari con l’acquirente del manufatto pittorico.

Il resto lo fanno i ricchi che partecipano alle aste: l’elenco delle foto meglio pagate non è minimamente un giudizio artistico espresso dalla comunità degli studiosi. Il meccanismo è talmente perverso che, per aumentare le proprie quotazioni, un fotografo può diffondere la voce di aver venduto a cifre non attestate da una casa d’aste: ad esempio la foto più costosa del mondo sarebbe Phantom dell’australiano Peter Lik (2014) se solo si sapesse l’acquirente o si avesse documentazione della compravendita, che secondo Lik riguarda la bella cifra di sei milioni e mezzo di dollari. Proprio questa, curiosamente, è la cifra a cui mira l’asta di Christie’s che – mettendo in campo la “copia originale” (cioè la prima stampa) di Le violon d’Ingres – vuole da un lato sfondare un tetto in direzione della definitiva entrata della foto d’arte nel settore delle merci di lusso (e dei beni-rifugio, con le guerre che corrono) e, dall’altro, allargare il campo dall’attuale tendenza alla contemporaneità (gli autori meglio pagati sono fotografi viventi: oltre a Gursky e Wall, esponenti dell’americanissima pictures generation come Cindy Sherman e Richard Prince) fino alle avanguardie storiche o ancora più lontano (bisogna arrivare al decimo posto dell’attuale hit parade per trovare uno scatto d’inizio Novecento, una rara foto a colori di Edward Steichen). Man Ray potrebbe essere l’uomo del miracolo.

Le violon d’Ingres è una specie di sintesi fra le due anime del cosmopolita Emmanuel Radnitzky, quella americana del pittore surrealista/dadaista (influenzato dall’amico Marcel Duchamp) e quella parigina del fotografo sperimentale (inventore o scopritore della solarizzazione e di quello che Moholy-Nagy, nel libro del 1925 Pittura Fotografia Film, chiama “fotogramma” o “ripresa senza camera”): da un lato il corpo della modella/amante Kiki de Montparnasse, schiena nuda e turbante in testa, rimanda ai due quadri La Baigneuse (1808) e Le Bain Turc (1862) di Jean-Auguste-Dominique Ingres; dall’altra la sovrapposizione in postproduzione delle f del violino, trasformando il corpo reale in una metafora musicale, segna il passaggio dalla sensualità “classica” della pittura a quella “moderna” dell’immagine tecnica. Se poi si confronta l’immagine classica di Ingres e l’immagine moderna di Man Ray con il remake postmoderno di Peter Witkin Woman once a bird (1990), in cui l’assenza del turbante rivela una calvizie da chemioterapia e i due buchi delle f sono diventati lacerazioni della carne (le ali strappate!), si vede come l’opera del 1924 stia al crocevia di tutto un canone occidentale fondato in vario modo sull’angoscia dell’influenza.

Ovviamente, detta tutta l’importanza storica di Man Ray e la fama duratura di Le violon d’Ingres, resta il fatto che l’uso strumentale di questa foto andrebbe discusso all’interno di una cornice teorica che dovrebbe comprendere non solo gli scritti di Benjamin sull’aura e quelli di Bourdieu sulla distinzione, ma anche un saggio purtroppo andato nel dimenticatoio come Il mito dell’originale (1988) di Luis Prieto, dove il semiologo argentino distingue pertinentemente fra l’originale come “oggetto d’arte” e come “oggetto da collezione”. Ma Prieto era comunista, come del resto Benjamin, e quindi è chiaro che la questione del valore artistico sconfina direttamente nell’economia politica: il mercato dell’arte lo fanno i mercanti d’aura; la rarità e/o l’originalità, se non c’è, bisogna crearla perché questo chiede l’élite dei collezionisti e degli investitori.

Forse l’investimento del futuro sarà la cripto-arte, acquistata sulla blockchain, pagata in bitcoin e detenuta in un token: apripista è la foto Forever Rose (2018), realizzata da Kevin Abosch (peraltro coautore con Ai Weiwei di un progetto Ethereum intitolato significativamente Priceless) e venduta per un milione di dollari, la cifra più alta finora per un’immagine virtuale. Per l’intanto, come diceva il compianto Alessandro Dal Lago, l’aura è viva e vende bene: quando leggerete questo pezzo, deciderete che fine ha fatto l’arte nell’epoca finanzcapitalista dell’aura artificiale.

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