Maigret. Il titolo del film di Patrice Leconte è riportato in locandina senza sottotitolo (La giovane morta), a sottolineare sin da subito che al centro del racconto è la figura del famoso investigatore francese inventato dalla penna di Simenon e non il caso specifico che sta seguendo. Ma forse possiamo andare ancora oltre: il film di Leconte funziona perché prova ad interrogarsi su che tipo di figura rappresenti simbolicamente, nel nostro immaginario, un commissario di polizia che investiga su un delitto, e perché ci troviamo ormai da quasi un secolo ad essere morbosamente attratti dal personaggio del detective, leggendo i romanzi e soprattutto (negli ultimi decenni) godendo delle loro trasposizioni cinematografiche e televisive.

Chi è in effetti, un investigatore – da Maigret a Poirot, da Colombo a Jessica Fletcher, da Sherlock Holmes a Montalbano? È qualcuno che, nelle lunghe parentesi dedicate alle proprie ricerche, sospende la propria vita. Il fatto, però, è che al lettore/spettatore non è dato conoscerlo se non attraverso quelle parentesi. Dunque, potremmo dire in modo un po’ tranchant, finisce per non conoscerlo affatto. L’indagine poliziesca è per natura una carta assorbente del quotidiano, una spugna che succhia la concentrazione di chi la guida asciugandone ogni possibile margine, ogni eventuale fuori campo. Perché si arrivi in fondo il commissario deve dimenticare chi è e proiettarsi totalmente sull’evento macabro e sui suoi attanti, spesso vivendo un’autentica esperienza di transfert nei confronti della vittima (o, quando l’identificazione diventa possibile nonostante il dato inesorabile della colpevolezza, dell’assassino).

Questa condizione di immersività e completo disorientamento delle coordinate del tempo ordinario al di fuori di un mistero che tieni svegli la notte, ricorda inconsciamente qualcosa di profondo a chi legge le pagine di un giallo o, in modo ancor più sottile, a chi nel buio di una sala o della propria casa se ne sta sprofondato in un divano, gli occhi fissi allo schermo. Il detective piace allo spettatore perché ne traduce narrativamente l’arresto forzato di fronte all’evento, quello del caso da risolvere così come quello della pellicola che scorre in avanti distogliendo chiunque la guardi (se è un buono spettatore, certo) dal fuori campo della vita.

Qualsiasi commissario, in altre parole, si porta dentro alla storia come voyeur, elemento esterno al contesto, osservatore, e quindi in fondo intruso caparbiamente e provvisoriamente avvinghiato a qualcosa di non suo che prima o poi, risolto il caso, lascerà andare al proprio corso. Solo in apparenza allora il detective è l’eroe che punta il dito contro l’omicida. Se guardiamo più in trasparenza il suo ruolo, costui rappresenta il dispositivo narrativo attraverso il quale allo spettatore viene data la possibilità di affacciarsi sulla realtà privata di un personaggio e sull’intrigo in cui quest’ultimo è coinvolto. I Maigret e i Poirot del caso perdono ogni spessore fisico o narrativo e diventano per noi una pura possibilità di sguardo, che svanisce quando la storia arriva al suo termine. La loro vita è al servizio del punto di vista che permettono a noi spettatori di perimetrare sulla realtà raccontata. In definitiva non esistono, se non per avverare il miracolo, nel tempo circoscritto di una storia, di vedere una nostra proiezione muoversi in un terreno immaginario.

Tutto questo è decisamente evidente nel Maigret di Leconte. Per quanto il suo investigatore abbia la corporeità robusta di Gérard Depardieu, per tutto il film si muove nella storia come un’ombra, spesso silenziosa o che parla a mezza bocca. Nell’indagine è solo, e anche nei pochi momenti in cui si rivolge al suo secondo o alla moglie (la sera, quando torna a casa) il suo sguardo è assente e il fuori della vita gli scivola addosso come se non esistesse. Leconte ci mostra in modo radicale che Maigret non è una persona, è la chiave di volta di una narrazione che ne compromette qualsiasi umana individuazione.

Il caso qui riguarda una giovane sbandata, Louise, che, arrivata a Parigi per cercare fortuna (siamo negli anni cinquanta) viene irretita da una coppia di amanti – lui di famiglia ricchissima, lei un’attricetta alle prime armi – che la coinvolge in un ménage à trois a pagamento. La ragazza si presenta senza preavviso ad un ricevimento organizzato dai due fidanzati i quali, spaventati dall’irruzione, la aggrediscono prima che la giovane possa presentarsi in pubblico. Nel corso dell’aggressione Louise cade per le scale e si rompe l’osso del collo, morendo all’istante. È la madre del rampollo la mente che guida la vera azione delittuosa, quella cioè di trasportare il cadavere in un parco vicino e pugnalarlo più volte in modo da far credere che sia stato macellato da qualche viandante notturno.

Questa in breve la trama, che nel racconto di Simenon (almeno come ci viene presentato da Leconte) non lascia particolare spazio alla suspense e si concentra, in una sorta di giallo alla rovescia, sulla ricostruzione dei pezzi del puzzle da parte del commissario di polizia. L’unico altro personaggio è quello di una ragazza in cui Maigret rivede la vittima – il cui cadavere, a differenza di ciò che accade di solito, ci viene mostrato più e più volte, all’obitorio così come attraverso la sineddoche del vestito bianco intriso di sangue che l’ispettore porta con sé (persino a casa, appoggiandolo sulla tavola da pranzo) cercando di risalire al negozio in cui è stato acquistato. Quest’altra giovane non è simile solo fisicamente all’assassinata, ne ripropone in qualche modo lo schema narrativo: è sola, trovatella, fuggita a Parigi per cercare la bella vita e ridotta a dormire sotto un ponte. Sarà proprio attraverso la sua presenza scenica, manovrata affettuosamente da Maigret come controfigura della vittima, che i tre omicidi finiranno per confessare.

Certo, si allude (anche se mai esplicitamente) al fatto che Louise ricordi a Maigret la figlia morta – e per questo sarebbe così coinvolto nel caso, tanto da non riuscire a pensare ad altro. Certo, dell’investigatore ci viene in parte mostrata la stanchezza della vecchiaia (fa una visita medica, ha il fiatone quando fa le scale, forse dovrebbe andare in pensione). Ma la verità è che qualsiasi tentativo di umanizzazione del detective soccombe sotto il peso del suo ruolo narrativo. L’investigatore non è fatto per essere umanizzato – Kennet Branagh ci prova con Poirot da anni, ma il risultato è discutibile. In questo Leconte è più sincero: cede al desiderio di far trasparire qualcosa dall’unico spazio, quello della bolla investigativa, in cui l’autore (in primo luogo Simenon) può divertirsi a iniettare qui e lì tratti emotivi della vita personale di Maigret. Ma poi arriva la scena finale, in cui ci appare definitivamente chiaro l’aspetto fantasmatico del commissario.

Risolto il caso lo vediamo al cinema, spettatore. Sta guardando un film (chiaramente inventato, o forse sta proiettando sullo schermo i suoi fantasmi) che mostra il famoso ricevimento con i tre personaggi sulla scena – la coppia balla, Louise se ne sta seduta in disparte. Leconte sutura investigatore e spettatore nello stesso corpo, a scanso di ogni equivoco (e del resto in vari momenti del film già il nostro sguardo corrispondeva al suo, nella tremolante soggettiva di una macchina a mano). Maigret è una nostra proiezione tanto quanto i tre protagonisti lo sono per lui in quella sala cinematografica. I suoi sentimenti sono allo stesso livello della sua pipa – o dei baffi di Poirot, l’automobile scalcagnata di Colombo, la macchina da scrivere di Jessica Fletcher: attributi più o meno astratti che danno corpo ad una proiezione, la nostra, pronta a svanire e a smettere di esistere nel momento stesso in cui si fa di nuovo buio intorno a noi.

E difatti nell’ultima inquadratura il Maigret corpulento di Leconte sparisce come fosse una nuvola di fumo, appena dopo aver guardato un’ennesima giovane bruna che forse gli ricorda anch’essa sua figlia, o la giovane morta, o la trovatella a cui si è affezionato. Come a dire: il gioco può ricominciare di continuo, perché è soltanto il nostro sguardo a sostanziarlo.

Maigret. Regia: Patrice Leconte; sceneggiatura: Patrice Leconte, Jérôme Tonnerre; fotografia:  Yves Angelo; montaggio: Joëlle Hache; musiche: Bruno Coulais; interpreti: Gérard Depardieu, Aurore Clément, Mélanie Bernier, Jade Labeste, Anne Loiret, Clara Antoons, André Wilms, Hervé Pierre, Pierre Moure, Bertrand Poncet, Elisabeth Bourgine, Philippe Du Janerand, John Sehil, Norbert Ferrer; produzione: Ciné@, F Comme Film, SND Films, Scope Pictures; distribuzione: Adler Entertainment; origine: Francia; durata: 89′; anno: 2022.

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