Se è vero che l’autorialità non è un valore assoluto ma un aspetto funzionale al contesto culturale, nell’odierno mainstream la sua dimensione viene assorbita dalle esigenze industriali e di commercio, sottostando al fenomeno della brandizzazione. L’autore diventa così un marchio, un “marketing dell’effetto-firma” direbbe Daney, un oggetto di facile e immediata riconoscibilità da parte del pubblico attraverso un look, o più raramente uno style, che permette di agevolare i meccanismi di fidelizzazione e vendita.

Pur non del tutto impermeabile ai meccanismi di riconoscibilità visiva, Steven Soderbergh – spesso marginalizzato come figura di poco prestigio – sembra invece prendere le distanze dall’immediatezza dell’effetto cartolina e costruire la propria autorialità con un atteggiamento fondato su due principi: versatilità e sperimentazione. Questa combinazione dà forma ad un carattere poliedrico che gioca con l’intera materia cinefila-cinematografica, realizzando una filmografia che trasuda “storia del cinema” da tutti i pori tramite un assiduo rapporto tra variazione e continuità, con opere sempre diverse ma identificabili come parte di una catena della tradizione.

Soderbergh sembra interrogarsi costantemente sul mezzo – o meglio, sui mezzi – sulla sua storia, sul suo linguaggio e sul contesto in cui si colloca, dando luce ad un “cinema della domanda” piuttosto che un cinema della certezza, che si fa largo fra le maglie dell’apparente mainstream. È per questo che l’approdo ai film romantici sulla danza, con Magic Mike – The Last Dance (2023), non solo appare del tutto naturale, inevitabile, ma restituisce quasi un senso di inspiegabile ritardo che spinge a chiedersi il perché di questa proroga.

Magic Mike (2012), ambientato nel mondo dello spogliarello maschile, infatti, marginalizzava la dimensione musicale-performativa per dare maggior respiro ai rapporti umani derivati dalla povertà: un vero e proprio dramma sociale che criticava capitalismo e apparenza, e rifletteva sulla dicotomia ambizione-possibilità. Il ballo, l’esibizione, erano solo un contorno. Di contro, il sequel Magic Mike XXL (2015) – che vede lo slittamento dell’autore dalla regia alla produzione – si presentava come suo opposto, dimenticando i toni seri e dolenti in favore di una commedia road movie in cui lo spettacolo inizia ad avere più spazio.

Ripresa in mano la trilogia a distanza di undici anni, il regista di Atlanta evita il ricalco di quanto fatto in precedenza, reinventandosi in virtù della propria versatilità. Pur recuperando il personaggio di Michael, ormai quarantenne – estrapolato dal contesto della squallida periferia statunitense e ricollocato nel prestigio di un teatro al centro di Londra – il ruolo da regista teatrale che deve ricoprire permette di non scadere nel riutilizzo nostalgico dei vecchi (in tutti i sensi) personaggi, dando invece la possibilità di utilizzare giovani novizi che devono essere “addestrati all’arte dello spogliarello”, ma, al tempo stesso, portatori della loro formazione di ballerini. Così come fatto con Solaris (2012), Soderbergh parte dalla fonte originale – in questo caso di sua stessa mano – trattandola come materia malleabile a proprio piacimento su cui innestare i propri interessi. Nulla più che un pretesto, verrebbe da dire, che non fa altro che collocarsi in modo coerente nel rapporto a lui caro di stabilità-instabilità.

A differenza degli altri film, in Magic Mike – The Last Dance la danza, l’aspetto performativo e coreografico assumono un ruolo strutturale, ora narrativamente ora concettualmente, andando a definire quelli che sono i caratteri e le interazioni tra i personaggi. Impossibilitati a comprendersi con il dialogo verbale, appartenenti a due contesti sociali opposti, è solo attraverso l’atto del ballo e dell’interazione dei corpi che le varie figure hanno la possibilità di comunicare con chiarezza, innalzando la danza a linguaggio universale capace di superare le barriere linguistiche e l’incomunicabilità tra individui.

Come in un film di Antonioni o in un romanzo di Pirandello, nel corso della vicenda i personaggi per loro stessa natura sembrano destinati a non potersi trovare, capire, comprendere. Quando, nelle battute finali, la coppia si trova ad un passo dal perdersi per sempre, è soltanto grazie alla capacità di trasformare la realtà in ballo, performance, che Mike riesce finalmente ad entrare in contatto con l’amata superando gli ostacoli comunicativi. Il reenactment del loro ultimo incontro – tramite la totale sostituzione del gesto alla parola – permette di far emergere con trasparenza i sentimenti che risiedono nel profondo, non comunicabili in altro modo; mentre Maxi condivide con noi il ruolo di spettatrice, destinatario di quel messaggio pantomimico: Questa è la storia di Maxi e Mike raccontata attraverso la danza. Senza sfociare nel musical puro, dalla coreografia che dà il via al rapporto tra i due protagonisti a quella usata dai ballerini per corrompere l’anziana burocrate, la dimensione dello spettacolo diventa quindi motore trainante di tutta l’opera.

La gestione delle componenti musicali mette in luce come l’autorialità di Soderbergh passi attraverso ad un fondamentale atteggiamento che si potrebbe definire di cleptomania. Se in No Sudden Move (2021) e in Effetti collaterali (2013) è difficile, se non impossibile, negare la presenza di un forte debito nei confronti di film come Milano Calibro 9 (1972) per il primo e Schegge di paura (1996) o i thriller di Adrian Lyne per il secondo – fino ad arrivare a casi espliciti come L’inglese (1999) in cui vengono riciclate, manipolate in funzione onirica, alcune scene di Poor Cow (1967) di Ken Loach per mostrare il passato di Terence Stamp – il pegno di Magic Mike – The Last Dance verso il franchise di Step up o, a voler essere più sottili, di Cinquanta sfumature risulta quasi lapalissiano.

Il regista dialoga con i codici di una tradizione cinematografica ben definita, recuperando alcuni elementi necessari per la costruzione di un immaginario che si possa presentare come continuazione di un passato già tracciato: dalla benda per gli occhi usata nel primo spogliarello per costruire la dimensione passivo-erotica, alla pioggia utilizzata come scenografia nell’esibizione finale come in Step Up 2 – La strada per il successo (2008), qui normalizzata – o giustificata – tramite il meccanismo dell’artificiosità scenica.

D’altro canto, l’allestimento dello spettacolo viene sfruttato da Soderbergh per ragionare sul proprio cinema e sulle proprie operazioni. Quello che viene chiamato a fare Mike è mettere in piedi uno spettacolo basato sul mondo dello spogliarello, in sostituzione al classico kammerspiel percepito come misogino e anacronistico. Ciò non può essere fatto rifiutando la fonte, sostituendosi ad essa, ma piuttosto conservandone la cornice su cui inserire il nuovo, la variazione appunto, svecchiando quanto fatto in passato creando e non ridefinendo (“Non la definirei proprio una ridefinizione di un classico”).

Arte alta e arte bassa, se ancora ha senso porre una tale distinzione, subiscono una crasi nella stessa misura in cui sperimentazione e mainstream si fondono in Soderbergh. È così che Isabel Ascendant viene trasformata in “altro”, diverso ma familiare, proponendo una nuova figura femminile che non gode più soltanto del piacere della visione, dell’intrattenimento, ma diventa detentrice delle redini del potere collettivo e individuale, in un ribaltamento dei tradizionali ruoli patriarcali.

Nel solco di Erin Brockovich e Angela Childs, l’idea di donna di cui il film si fa promotore non è più quella dell’oggetto per secoli e secoli conteso dagli uomini, costretta ad assecondare le linee di pensiero tipicamente maschili. Essa si spoglia di quel fardello, ottenendo il diritto non soltanto di scegliere ma anche di non scegliere, libera di vivere con leggerezza e fluidità la propria sessualità senza la preoccupazione d’essere accusata di mancanza di pudore (“Perché devo sentire il bisogno di scegliere? Tra il vecchio e il ricco? Tutto ciò che voglio è solo un uomo in jeans e canottiera”).

Paradossalmente, l’invasione scenica da parte di un’ondata di uomini pone la figura della donna emancipata come vertice di un cinema che si autoalimenta, tanto giovane quanto lucido sulla propria condizione, con un film che va a costruirsi come un mosaico postmoderno cinefilo estremamente consapevole di ciò che è stato e del proprio potenziale. Soderbergh si configura quindi come un grande autore perché si inserisce nella catena dei grandi autori che l’hanno preceduto, dove l’appropriarsi di Tarkovskij, Coppola, Curtiz è solo un modo di certificare la propria appartenenza a quella catena. Ancora una volta, cinema come argilla nelle mani di un demiurgo.

Magic Mike – The Last Dance. Regia: Steven Soderbergh; sceneggiatura: Reid Carolin; fotografia: Steven Soderbergh; montaggio: Steven Soderbergh; interpreti: Channing Tatum, Salma Hayek, Ayub Khan Din, Jemelia George, Juliette Motamed, Vicki Pepperdine, Gavin Spokes, Caitlin Gerard, Christopher Bencomo, Sebastian Melo Taveira; produzione: Warner Bros. Pictures; distribuzione: Warner Bros; origine: Stati Uniti d’America; durata: 112′; anno: 2023.

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