Forse per poter leggere l’ultimo film di Bradley Cooper bisogna partire dalla sua ossimorica locandina. La scritta “maestro” – il titolo musicale per eccellenza, tradizionalmente declinato soltanto al maschile – campeggia sulla fotografia di una donna da sola, ritratta da dietro, una donna elegante, abito in mikado color pastello, collana di perle, capelli raccolti, sigaretta in una mano. L’immagine sembra tradire una forma d’inquietudine, oltre al mancato accordo di genere, che mal si adatterebbero all’ennesima versione del sogno americano, la vita del più grande direttore d’orchestra degli Stati Uniti d’America, il primo nato su suolo statunitense a poter vantare questo titolo. Ma il film di Cooper, e lo si capisce molto presto, non vuole, in realtà, raccontare la sensibilità musicale, il virtuosismo compositivo, il poliedrico talento di Leonard Bernstein. Per certi versi Bernstein è un pretesto, un pretesto per raccontare una storia d’amore, quell’unico, irripetibile e molto spesso incomprensibile equilibrio che due persone riescono inspiegabilmente a creare. Ma qual è il prezzo da pagare per preservare tale equilibrio?
Il film comincia nel modo più tradizionale possibile: Bernstein rilascia un’intervista e così riavvolge il nastro, visivo e sonoro, della sua esistenza. La prima parte è tutta dedicata a questo flashback in bianco e nero. Siamo nel 1943, e per la prima volta il compositore americano si trova a dirigere la New York Philharmonic Orchestra alla Carnegie Hall. Quando riceve la telefonata che lo avvisa di questo cambiamento dell’ultimo minuto – Bruno Walter è malato – è a letto con un uomo, un musicista come lui, a cui sembra legato da sincero affetto. Ad una festa, però, incontra Felicia Montealegre e tra i due scatta immediatamente una una profonda complicità: lei aspirante attrice, lui promessa della musica contemporanea, i due condividono energia, gioia di vivere, entusiasmo e un’intima tendenza ad eccedere rispetto a canoni, etichette, convenzioni. “Non posso essere una cosa sola”, dice Lenny – il compositore che stava a metà tra due mondi, quello della musica colta e quello della musica popolare del musical – a Felicia in uno dei loro vivaci, intensi, dialoghi. E lei riesce a cogliere in modo profondo quell’incontenibilità del marito.
Questa è la parte in cui Cooper regista – un capitolo a parte meriterebbe la prova attoriale di Cooper, ma anche quella di Carey Mulligan – osa di più: la regia gioca continuamente con gli spazi, aperti e chiusi, con il ritmo della recitazione e del montaggio, con i generi, il musical in primis. E soprattutto fa un uso non scontato della musica: diversamente da quanto ci si potrebbe aspettare, e forse per alcuni in realtà si tratta di un limite, il film non si mette mai al servizio del genio musicale di Bernstein, l’immagine non svolge mai un compito didattico, ovvero quello di narrativizzare la musica con l’intento di aiutare lo spettatore a capire ciò che ha reso unico Bernstein come compositore e direttore. No, la musica è sempre e “soltanto” vita, amalgama che dà forma alle contraddizioni, le irregolarità, gli eccessi, le spinte vitali dell’esistenza di un genio.
Ed è proprio questo aspetto che viene messo a tema nel seconda parte del film, quella sicuramente più tradizionale e per certi versi scontata. Quando ormai Bernstein si è affermato a livello mondiale – dirige orchestre in tutto il mondo, ha cambiato la storia del musical con West Side Story, svolge attività di divulgazione con i suoi programmi televisivi – quando cioè ormai la sua spinta creativa sembra aver raggiunto ogni traguardo immaginabile, la musica non basta più a raccogliere e sublimare la sua incontenibile, e pertanto distruttiva, forza vitale e lì il matrimonio entra in crisi. Felicia diventa sempre più insofferente alla doppia vita del marito, che si circonda di giovani musicisti attraverso cui cerca di alimentare la creatività di cui ha bisogno per restare a galla e quell’equilibrio, fragile per natura, che fino a quel momento aveva resistito, va in frantumi. Ma l’amore no. E quando Bernestein si esibisce per la prima volta con la sua opera monumentale, Messa, Felicia lì ad ascoltarlo, come accanto a lei ci sarà lui nei momenti più difficili e drammatici della malattia.
C’è una scena molto bella che si ripete in due momenti diversi del film. All’inizio, quando i due giovanissimi si stanno conoscendo, fanno un gioco: seduti sul prato di un parco, spalle a spalle, giocano ad indovinare il numero che l’altro sta pensando. Il gioco non sta nel trovare il numero, ma nel mantenere quella posizione di reciproco equilibrio. Per una vita Felicia sarà il perno di quella unica e irripetibile unione, fino a quando alla fine, Lenny, per una volta, se ne farà carico: dopo una visita in ospedale passeggiano in un parco e Lenny ripropone il gioco invitandola a lasciarsi andare completamente. Ecco, in fondo la storia del più grande direttore d’orchestra americano è tutta qui: in questo equilibrio tra amore e autoaffermazione, tra norma ed eccezione, tra musica e vita.
Maestro. Regia: Bradley Cooper; sceneggiatura: Bradley Cooper, Josh Singer; fotografia: Matthew Libatique; montaggio: Michelle Tesoro; interpreti: Carey Mulligan, Bradley Cooper, Matt Bomer, Maya Hawke, Sarah Silverman, Josh Hamilton, Scott Ellis, Gideon Glick, Sam Nivola, Alexa Swinton, Miriam Shor; produzione: Sikelia Productions (Martin Scorsese), Amblin Partners (Steven Spielberg, Kristie Macosko Krieger), Lea Pictures (Bradley Cooper), Fred Berner Films (Fred Berner, Amy Durning); distribuzione: Cai Mason – Netflix; origine: USA; durata: 129; anno: 2023.